Il 22 ottobre si terrà un referendum per l’autonomia di due regioni italiane: Lombardia e Veneto. In un’intervista rilasciata dal governatore lombardo Roberto Maroni al Corriere della Sera si coglie l’intento di ampliare la base politica del consenso all’iniziativa referendaria. L’impressione però resta quella di un interesse a mantenere sul territorio lombardo (e veneto) il residuo fiscale, ossia lo scarto esistente tra tasse pagate dalla regione e spesa pubblica ricevuta sul territorio regionale.

Giova ricordare che le nostre regioni sono oggi il frutto delle scelte operate nel passato, oltre che l’esito del lavoro di classi dirigenti che hanno saputo far fruttare (in vari modi, come vedremo) le opportunità che si sono presentate. Occorre ripassare la storia: lo facciamo con La questione italiana, del prof. Francesco Barbagallo. Il Nord industriale è un frutto positivo dell’esperienza unitaria. Cito dal testo: “I mezzi finanziari per l’industrializzazione italiana verranno ora soprattutto dalle rimesse dei milioni di meridionali emigrati nelle Americhe”. Si riferisce al passaggio tra Ottocento e Novecento. Si ricordi che, a seguito della crisi del 1907, “il salvataggio della Fiat, colpita da una crisi di liquidità, fu allora operato dalla Banca d’Italia utilizzando temporaneamente le rimesse spedite tramite il Banco di Napoli dagli emigrati meridionali nelle Americhe”.

La prima guerra mondiale fece esplodere il divario tra Nord e Sud. I grandi gruppi industriali (meccanici e siderurgici, come Ilva, Ansaldo e Fiat) decuplicarono gli occupati e “la base industriale del Nord-Ovest, che aveva avviato da un quindicennio il suo sviluppo, sfruttò l’occasione bellica per decollare definitivamente verso una società industrializzata”. La riconversione industriale puntò al salvataggio delle imprese settentrionali mentre chiudevano le fabbriche di Pozzuoli e Castellammare. Quelli dal 1929 al 1935, per Manlio Rossi-Doria, furono gli anni della “disperazione nera in tutto il Mezzogiorno”. Calava il reddito netto, che era assai meno della metà di quello del Nord. Le distruzioni della seconda guerra mondiale riguardarono il 35% delle industrie meridionali e il 12.4% di quelle settentrionali. Un altro brutto affare, anche quella guerra.

Veniamo agli anni Novanta, in cui il divario ha ricominciato la sua crescita. “Nel 1994-95, i governi Berlusconi e Dini procedono alla definizione delle ‘aree depresse del territorio nazionale’, che potranno ricevere i finanziamenti europei. L’iniziativa spetta al ministro del Bilancio Giancarlo Pagliarini, leghista. Diventano aree depresse le più ricche e industrializzate zone d’Europa: quasi tutto il territorio compreso tra Milano e Varese, molti comuni veneti intensamente sviluppati, quartieri di Torino, Genova, Trieste, Reggio Emilia”. Con una legge del ministro Tremonti questi comuni, entrando nel novero delle “aree depresse”, fruirono anche di altri benefici. Nel frattempo, anche se la Banca d’Italia sosteneva l’importanza delle politiche nazionali per ottenere benefici al Mezzogiorno, si sviluppava la logica del “localismo virtuoso”, una sorta di rapporto Stato-Mezzogiorno che ricorda l’invocazione di Gesù a Lazzaro, ma senza poteri sovrannaturali. Mentre il prodotto pro capite del Sud scendeva in picchiata, “alla fine del 2002 il governo Berlusconi istituì il fondo per le aree sottoutilizzate (Fas), che unificava le risorse aggiuntive nazionali per le cosiddette “aree depresse” e ne destinava al Mezzogiorno l’85%”. Ma, ricorda sempre Barbagallo, “il ristagno dell’intera economia italiana e la mancanza di un disegno generale di sviluppo del paese, insieme alla distrazione dal Mezzogiorno di gran parte degli investimenti previsti, non consentirono alcuna crescita significativa del Sud e allargarono il divario col Centro-Nord”.

Tra 2008 e 2012 “le risorse del Fas saranno destinate verso aree non comprese nelle politiche di coesione e dirottate verso le tante emergenze prodotte dalla crisi”. Ben 26 miliardi di euro, secondo il Cnel, le risorse Fas dirottate dall’uso per cui erano state pensate. Invece, la disattenzione statale per il Sud, vede il calo della spesa pubblica in conto capitale nel Mezzogiorno dal 41.1% al 33.5% tra 2001 e 2009. Questi i dati, questa la storia che ha portato l’Italia a essere quella che è oggi. Al di là dei populismi/rappresentazioni falsate della realtà.

Sarebbe poi da approfondire la curiosa idea di Maroni per la quale “Potendo trattenere la metà del proprio residuo fiscale, ogni Regione virtuosa potrebbe ‘adottare’ una Regione del Sud e fare politiche di sostegno, per esempio, alle imprese che vogliono delocalizzare: diamo agevolazioni a chi va in Campania invece che in Polonia”. Una regione, anche se a statuto speciale, non può evidentemente “adottare” un’impresa o un’altra regione, qualsiasi cosa l’adozione voglia significare. Chi, se non il governo (e quindi non la Regione Lombardia né la Regione Veneto) potrebbe stabilire come definire i meccanismi di disincentivo alle delocalizzazioni? E’ giuridicamente ammissibile un intervento di una Regione, anche se a Statuto speciale, finalizzata a bloccare i movimenti di capitale? Qual è la logica per la quale la Lombardia e il Veneto dovrebbero ‘trattenere risorse’ per poi impiegarle per il Sud? Queste, e altre, domande andrebbero poste ai promotori del referendum. Noi continuiamo a credere che non ci sia alcun afflato di solidarietà in queste proposte.

Ringrazio il Prof. Guglielmo Forges Davanzati per i preziosi consigli e suggerimenti.

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