L’imperativo è uno: evitare l’uso della forza. Alle palazzine dell’ex villaggio olimpico di Torino, nell’area ex Moi, occupate dal 2013 da centinaia di africani rimasti senza un tetto dopo i sei mesi di accoglienza del piano “Emergenza Nord Africa”, non devono esserci tafferugli come quelli avvenuti a Roma in via Curtatone ad agosto. Lo ha detto domenica sera alla Festa dell’Unità il presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino: “Si proceda allo sgombero il più rapidamente possibile, senza esibizioni muscolari”. Lo aveva precisato a inizio settembre il presidente della Compagnia di San Paolo, potente fondazione bancaria torinese, Francesco Profumo: “Nessuno sgombero o intervento di forza, ma un patto d’inclusione tra le istituzioni e gli occupanti”. Quasi nessuno vuole chiamare “sgombero” il progetto volto alla liberazione degli edifici viene chiamato “Iniziativa Moi”, dove in questo caso le tre lettere sono l’acronimo di migrazione, opportunità e inclusione.
L’iniziativa è un progetto sviluppato dalla prefettura, con il Comune di Torino, la Città metropolitana, la Regione Piemonte, la Diocesi e la Compagnia di San Paolo, che il 5 giugno hanno firmato un accordo. Poi, l’8 giugno, è cominciato il censimento degli occupanti: ne sono stati contati 530, ma molte stanze erano chiuse e gli abitanti erano fuori, impegnati nelle loro attività (in quel periodo molti facevano i braccianti). Così è stato chiesto a chi c’era quanti fossero gli inquilini delle stanze chiuse e al termine del censimento sono state contate circa 750 persone, di cui 40 donne. Sono soprattutto giovani uomini arrivati dall’Africa subsahariana, dalla Somalia al Mali, le due nazionalità più rappresentate. Ci sono poi alcuni nordafricani, ma sono pochi. Una cinquantina di occupanti vive nei piani interrati in condizioni di vita ultraprecarie e alcuni hanno affermato di dover pagare un affitto. Per la Compagnia di San Paolo è impensabile che possano esserci molte più persone nelle quattro palazzine, le 1.200 stimate prima del censimento, e 400 abitanti dei sotterranei.
Le palazzine sono state occupate tra il 30 e il 31 marzo 2013 da circa trecento africani. Il 13 dicembre 2014 il tribunale di Torino ha emesso un’ordinanza di sequestro finalizzata allo sgombero, un’ordinanza rimasta chiusa nel cassetto per anni. Poco dopo il suo insediamento la sindaca Chiara Appendino aveva ribadito di voler affrontare “la questione gradualmente, una palazzina per volta”. La procedura non sarà proprio quella prospettata dalla prima cittadina, ma l’approccio sarà graduale. Entro la fine dell’anno partiranno le prime 150 persone a cui è stata fornita una sistemazione (venti alloggi messi a disposizione della Città, 80 dalla Diocesi e 50 in un progetto di social housing). Le altre dovranno andarsene tra il 2018 e il 2019. Tempi lunghi: “È difficile trovare un inserimento abitativo e lavorativo che non sia una più semplice borsa lavoro”, spiegano gli addetti ai lavori. Al momento sono partiti i percorsi di formazione per l’inserimento nel mondo del lavoro: 43 contratti di somministrazione lavoro nei cantieri navali del Veneto e Friuli Venezia Giulia dal 22 agosto (altri venti partiranno entro la fine del mese) e undici contratti come aiuto cuoco nell’area metropolitana torinese. “I primi insediamenti lavorativi hanno contribuito a generare un clima positivo, anche se alcuni occupanti sono ancora scettici”, spiegano gli operatori.
La fiducia degli occupanti è un fattore importante per il successo dell’iniziativa, che mira a integrare i 750 inquilini delle strutture, a restituire ai proprietari gli edifici e riqualificare l’area. Certo, se nelle prossime settimane cominceranno le partenze dei primi 150 che hanno trovato sistemazioni migliori, resta il rischio che con la stagione fredda arrivino nuovi ospiti e che le palazzine tornino a riempirsi obbligando le istituzioni a ricominciare da capo. Cosa fare? Murare le stanze e i piani liberati? In attesa di una soluzione tecnica gli operatori confidano nel patto di collaborazione con gli occupanti.