di Flaminio de Castelmur per @SpazioEconomia
L’innovazione portata da Internet e dall’e-commerce nel mondo, questa volta farà reinventare teorie fiscali e assetti consolidati da anni.
La base teorica dell’imposizione fiscale postula l’applicazione delle imposte sul reddito prodotto, nella località in cui è stato prodotto. Una delle principali lacune è che il diritto di una giurisdizione a tassare “esiste solo quando l’azienda ha una presenza fisica” in quello Stato. Ma la new economy ha per sua natura una presenza fisica ridottissima e un’attività spesso immateriale. La distorsione è evidente e, nonostante l’abuso di veicoli fiscali utilizzati per abbattere le tasse, non è neppure necessariamente illegale. Per la semplice ragione che, se io tasso il reddito prodotto nel mio territorio, allora le grandi imprese di Internet possono a ragione sostenere che il proprio prodotto sia sostanzialmente fabbricato nei laboratori dove si fa ricerca. Mentre molto inferiore, rispetto ad un’azienda che vende beni pesanti, è il valore della logistica se non ho bisogno di navi e magazzini (a ciò fa parziale eccezione Apple e, da poco, Amazon).
Per capire il peso della questione basta vedere i numeri dei bilanci ufficiali: le prime cinque imprese digitali per capitalizzazione (Amazon, Google, Apple, Microsoft e Facebook) sono anche le cinque più grandi imprese del mondo per valore. Realizzano il 60% di vendite e profitti fuori dagli Stati Uniti, lasciandovi solo il 10% delle tasse pagate. Exxon, Johnson & Johnson e General Electric, per citare colossi americani che non sono però digitali, fanno metà del fatturato all’estero e all’estero pagano la metà delle tasse.
Così facendo Google nel 2012 ha pagato in Usa imposte a un tasso del 40,8% e del 5,3% fuori, mentre nel 2013 le percentuali sono diventate rispettivamente il 26,4% e l’8,6%. Apple invece negli stessi periodi ha pagato il 70,2% in Usa e l’1,9% all’estero nel 2012 e il 61% in casa e il 3,7% fuori casa nel 2013.
Secondo una recente stima del Parlamento europeo, i 28 hanno perso gettito fiscale per 5,4 miliardi di euro nel 2013-2015 per mancati versamenti da parte di Google e Facebook. Oggi l’aliquota media europea in un settore tradizionale è del 20,9%, mentre nel settore digitale è dell’8,5%.
Durante l’ultima riunione Ecofin tenuta a Tallinn, i Ventotto hanno chiesto alla Commissione europea di studiare nuove forme di tassazione dell’industria digitale. La questione, come detto, comporta anche un ripensamento dei fondamenti del’imposizione tradizionale. Partendo dalle principali proposte sul tavolo, che sono tre: una tassa sul fatturato che le imprese digitali registrano in un dato paese; una ritenuta alla fonte sulle transazioni digitali; una imposta da applicare alle attività digitali (servizi offerti o pubblicità raccolta). Seguendo l’esperienza dell’India, nella dichiarazione si suggerisce anche di introdurre un’equalization levy, cioè un’imposta compensativa sui ricavi delle imprese che non hanno una presenza economica significativa (digitale) nei vari stati Ue.
Il punto di fondo è che alla fine qualsiasi ipotesi di imposta digitale deve fare affidamento su una misurazione fisica dei contenuti digitali delle varie attività economiche con la necessità di un contatore digitale del traffico dati (quantità e qualità) e del numero degli utenti.
Importante è il fatto che le imprese digitali presentino varie forme di ricavi, ad esempio, ricavi da pubblicità online, sottoscrizione di piattaforme web con un fee, servizi premium, cloud computing, raccolta e utilizzo di big data e molto altro ancora. Gli utenti stessi sono una fonte importante di valore economico e di ricavo (big data). Il valore dei dati si trova nella loro “quantità e qualità”. Questi big data possono essere raccolti, aggregati, analizzati, profilati, trasmessi e rivenduti e sono la nuova vera ricchezza dell’economia globale.
Dubbi applicativi riguardano pertanto le modalità per definire imprese digitali e attività digitali, oppure quale definizione dare al termine fatturato. Inoltre, tassare il volume d’affari metterebbe a rischio il principio di neutralità fiscale, creando un’eccezione alla tassazione dei profitti. Nel caso specifico italiano, si andrebbe poi incontro a violazioni del principio di capacità contributiva, garantito dalla Costituzione.
L’Ecofin nei documenti parla di soglie quantitative. Quindi il problema non riguarderebbe solamente Google, Amazon e Facebook, ma potrebbero rientrare in questa definizione anche colossi come Zara e H&M, ad esempio, poiché effettuano vendite in e-commerce pur non essendo industrie digitali.
Un altro aspetto delicato è la definizione del funzionamento operativo dell’imposta: da chi verrebbe riscossa (imprese o contribuenti)? Come e a chi (Tesori nazionali?) sarebbe versata? Infine, con quale l’aliquota?
I delicatissimi temi fiscali in Europa richiederebbero l’unanimità dei Paesi. Dall’Ecofin di Tallinn però arriva la possibilità di procedere singolarmente con la revisione del sistema di tassazione nei singoli Paesi membri, senza bisogno dell’unanimità.
La verità finale è che la sfida è doppia: trovare un consenso in Europa, ma soprattutto evitare una deleteria spaccatura internazionale. E anche questo è un problema.