Ovunque gli insediamenti irregolari sono una piaga sociale. A Ibadan (Costa d’Avorio) 16 alluvioni devastanti hanno provocato più di 35mila vittime nei primi 15 anni del nuovo millennio, soprattutto nei quartieri informali, dove le condizioni di vita e vicinato sono le più insalubri possibile, i rifiuti si accumulano ovunque e le infrastrutture sono del tutto inadeguate. In alcune nazioni dell’Africa sub-sahariana e nelle grandi città del Sudest asiatico la piaga degli insediamenti informali coinvolge fino al 60% della popolazione residente. Almeno il 25% dei sudamericani vive in insediamenti informali, così come accade in molti paesi arabi. Perfino dei paesi avanzati la precarietà abitativa è una realtà emergente: anche in Europa, Nord America, in Australia e in Nuova Zelanda si possono trovare abitazioni precarie e un numero crescente di senzatetto, un problema che riguarda, in media, una persona su dieci. Alcune pratiche, anche quelle virtuose come l’auto-costruzione diffusa negli Stati Uniti, hanno aggravato la situazione.
L’Italia si segnala per uno dei paesi europei dove l’abusivismo ha dilagato e continua a farlo. Secondo i dati il centro ricerche del Cresme – che non è un soggetto libero da condizionamenti, poiché raduna il gotha del mondo italiano delle costruzioni – solo l’anno scorso (2016) sono stati costruiti 17mila nuovi edifici fuorilegge. Tra il 2003 e il 2011 furono mappate più di 250mila nuove case abusive, che fanno salire a un milione e duecentomila gli edifici irregolari del paese. Dal 1985 a oggi ci sono state più di due milioni di domande di condono edilizio e solo in un caso su cento il beneficio è stato negato (anche se circa 800mila pratiche sono ancora da evadere). L’angelo sterminatore delle demolizioni, quasi 50mila ingiunzioni della magistratura a tutto il 2012, è un cane di paglia(*), se nei soli capoluoghi ne furono eseguite un misero dieci per cento tra il 2000 il 2011. E l’andazzo non pare mutato.
Varrebbe perciò la pena riflettere su questo fenomeno senza paraocchi. Non è sempre malavitoso anche se lo è in parecchi casi. Come ha scritto la presidente dell’Habitat international coalition Lorena Zàrate “per quanto informali e irregolari, questi sono soprattutto insediamenti umani; o, meglio, sono la città prodotta dalla gente, persone che pretendono i loro diritti: vivere, costruire e trasformare la città”. E la capacità di distinguere le situazioni critiche dove intervenire, e intervenire senza sconti con saggezza e competenza, aiuterebbe le istituzioni a riguadagnare un po’ della credibilità persa in anni di lotta velleitaria, soprattutto in Italia.
Molti associano meccanicamente abusivismo e vulnerabilità, sismica o idrogeologica o entrambe. A pelle è spesso vero, ma non conosco studi specifici sul nostro paese che ne valutino l’incidenza, come quelli condotti in Africa o negli Stati Uniti; e che disegnano situazioni assai più complesse di quanto appaia a prima vista. Limitarsi alla condanna dell’abusivismo come fonte di rischio è però fuorviante. In Italia ci sono infiniti esempi di costruzioni pubbliche e private, regolarmente approvate da tutti i santi che devono pronunciarsi in materia, chiaramente esposte al rischio. In qualche caso si è rimediato con opere di difesa ad hoc a spese di Pantalone. Qualche volta, invece, questi edifici non soltanto sono pericolosi ma anche vulnerabili, perché chi fa finta di non vedere l’esposizione alla pericolosità si guarda bene dall’intervenire sulla vulnerabilità: occhio non vede, cuore non duole, soprattutto dopo un disastro per cause “veramente eccezionali”.
(*) Nota a piè pagina:
“Il Cielo e la Terra non usano carità,
tengono le diecimila creature per cani di paglia.
Il santo non usa carità
tiene i cento cognomi per cani di paglia”
(Tao Te Ching, V, 1-4).