Nelle stesse ore in cui a Washington naufragava la possibilità di cancellare l’Obamacare, in Alabama si consumava un’altra sconfitta per Donald Trump (e per tutta la leadership repubblicana). L’ex giudice Roy Moore conquistava la nomination alle primarie del G.O.P. contro il candidato sostenuto dal partito, Luther Strange, o “Big Luther”, come Trump lo ha definito in campagna elettorale. La vittoria di Moore, una delle personalità più controverse della politica e della giustizia americana, è il segnale che una parte degli elettori repubblicani, il cuore più conservatore del partito, è decisamente insoddisfatto per come stanno andando le cose a Washington.
Ex giudice della Corte Suprema dell’Alabama, Moore è stato al centro delle conache nazionali in almeno due occasioni. Quando lo hanno rimosso dal suo seggio per essersi rifiutato di spostare dal cortile della statehouse un monumento sui Dieci Comandamenti che lui stesso aveva fatto collocare; e quando è stato ancora una volta rimosso dal suo incarico per essersi rifiutato di applicare la sentenza sui matrimoni gay. Il giudice Moore è comunque diventato in questi anni celebre – tristemente celebre, secondo alcuni – per tutta una serie di prese di posizione clamorose.
In un’intervista del 2005 disse che “ogni tipo di condotta omosessuale dovrebbe essere messa fuori legge”; ancora la scorsa settimana, durante un dibattito della campagna, Moore ha ripetuto che “sodomia e perversione sessuale dilagano nel Paese”. In un discorso pochi mesi fa l’ex giudice ha anche fatto riferimento agli attacchi terroristici dell’11 settembre, suggerendo che si sia trattato di una punizione divina contro gli Stati Uniti (la sua fonte è il Libro di Isaia). Hanno suscitato inoltre sconcerto le definizioni di “rossi e gialli” per nativi americani e asiatici (sempre giustificate sulla base del Vangelo); l’accusa di comunismo nei confronti di un sistema per identificare il bestiame; le lodi per Vladimir Putin (anche qui, per le posizioni del presidente russo sugli omosessuali).
Che Moore diventasse il candidato repubblicano alle elezioni per il seggio di senatore in Alabama (lasciato libero da un altro conservatore, Jeff Sessions, diventato attorney general) era quindi un’ipotesi che non piaceva a gran parte della leadership di Washington, che ha appoggiato l’ex attorney general dell’Alabama, Luther Strange, un politico di scarse doti, mai davvero capace di fare il salto nella grande politica nazionale. Strange non ha soltanto ricevuto l’appoggio formale di Mitch McConnell, della dirigenza repubblicana di Washington e dello stesso Trump – che in un comizio ha spiegato che Moore, troppo conservatore, avrebbe avuto difficoltà a imporsi contro il democratico Doug Jones. Strange ha ricevuto anche consistenti finanziamenti dal suo partito, con un gruppo legato a McConnell che ha offerto al candidato “ufficiale” 9 milioni di dollari.
Dichiarazioni di voto “pesanti” e molti dollari non sono però bastati. Ha vinto Ray Moore, che in campagna elettorale ha goduto dell’appoggio di Nigel Farage, l’ex leader del britannico UKIP, e di Steve Bannon, l’ex capo stratega della Casa Bianca e teorico della Alt-right, tornato a lavorare a Breitbart News. La leadership repubblicana ha dovuto inghiottire la sconfitta e si è subito allineata con Moore. Il Senate Leadership Fund del partito ha scritto, in un comunicato, che “sebbene ci si sia battuti per ‘Big Luther’, Moore ha ora il nostro appoggio, in quanto è necessario mantenere il seggio dell’Alabama sotto il controllo repubblicano”. Congratulazioni sono venute anche da Trump, che in uno dei suoi tweet ha tuonato: “Roy, VINCI a novembre” (le elezioni in realtà sono a dicembre, come lo stesso Trump ha notato in un tweet successivo).
Il presidente è stato probabilmente costretto ad appoggiare Strange per equilibri interni al partito, anche se Roy Moore, per le vulcaniche prese di posizione anti-establishment di Washington, è probabilmente più vicino al tipo di politica e di retorica portate avanti da Trump in questi anni. Quello che è avvenuto in Alabama è, del resto, una vera e propria battaglia per l’“anima” del partito repubblicano. Come ha fatto notare proprio Steve Bannon, la vittoria di Moore è il segnale di quello che sta succedendo nel G.O.P.: una trasformazione in senso sempre più conservatore, una selezione di candidati e di personale politico che non ha niente a che fare con l’approccio più moderato e centrista che ha dominato per decenni a Washington. C’è stato, a partire dal 2008-2009, l’emergere dei vari Tea Parties in giro per il Paese; e poi l’arrivo a Washington di senatori e deputati radicali, da Mike Lee a Ted Cruz a Dave Brat; e ancora, nel 2016, l’elezione a presidente di Trump, il simbolo del vento di rivolta populistica della base più conservatrice.
Il prossimo obiettivo, per Bannon e i suoi, è già fissato. Nelle scorse ore Bob Corker, un repubblicano moderato del Tennessee, ha annunciato che non si ricandiderà al Senato. Il suo seggio è un nuovo tassello nel grande puzzle della rivoluzione conservatrice.