di Andrea Filocamo*
Dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia, il nuovo Regno dovette dotarsi di una moneta unica, dato che nei singoli Stati preunitari circolavano monete differenti. Come in altri ambiti, si scelse il modello sabaudo, adottando nel 1862 la lira piemontese. Un aspetto trascurato dell’unificazione monetaria italiana riguarda il suo possibile effetto sullo sviluppo economico delle diverse aree del Paese. L’unificazione monetaria influenzò il divario tra Nord-Sud? La risposta a questa domanda non soddisfa solo una curiosità accademica. Per alcuni aspetti, l’esperienza italiana può risultare utile per comprendere l’impatto che l’adozione dell’euro ha, oggi, sui divari regionali in Europa.
La teoria delle aree valutarie ottimali, proposta da Robert Mundell nel 1961, rappresenta uno schema utile per verificare se ai Paesi conviene adottare una moneta unica. Secondo questa teoria, un’unione monetaria funziona se presenta alcune condizioni. Tra queste, in particolare, l’elevata mobilità dei fattori di produzione, vale a dire la facilità per i lavoratori di una regione colpita da crisi di trovare occupazione nelle altre regioni.
Ora, se guardiamo al Regno d’Italia del 1861, tale condizione non sembra soddisfatta. Su scala nazionale, la mobilità del lavoro era bassa, nonostante il progressivo incremento delle vie di comunicazione. Per un meridionale era ovviamente più semplice spostarsi all’interno dei confini dell’ex Regno delle due Sicilie che nel resto della Penisola. Proprio l’emigrazione transoceanica, che iniziò verso la fine dell’Ottocento, mostrava come un veneto o un calabrese fossero maggiormente attratti dalle Americhe piuttosto che dalle regioni del Nord-Ovest che si andavano industrializzando. La ragione fondamentale è che le condizioni economiche delle regioni italiane erano, all’epoca, ancora simili. Di conseguenza, si emigrava all’estero, mentre l’emigrazione interna al paese era ancora modesta.
In assenza di mobilità del fattore lavoro, è molto difficile in un’unione monetaria assorbire i cosiddetti “shock economici asimmetrici“, quelle crisi, cioè, che colpiscono solo alcune regioni lasciando indenni le altre. In presenza di shock asimmetrici, la politica monetaria unica risulta evidentemente inefficace, dal momento che una politica espansiva per sostenere le regioni in recessione indurrebbe inflazione nelle aree non colpite dallo shock, mentre se si volesse privilegiare la stabilità monetaria, si dovrebbero accettare la recessione e la disoccupazione nelle aree più deboli.
C’è chi ha sostenuto che proprio le unioni monetarie ridurrebbero la probabilità che si verifichino shock asimmetrici. L’unione monetaria accrescerebbe, infatti, gli scambi commerciali tra gli Stati o le Regioni aderenti, sicché le loro economie ne risulterebbero coordinate. A questo punto, una politica monetaria unica sarebbe efficace. Un’argomentazione che appare oggi discutibile, alla luce dell’andamento degli scambi commerciali nell’attuale area euro.
Ma c’è un altro aspetto da considerare. In un’unione monetaria, i fattori produttivi (soprattutto il capitale) possono facilmente spostarsi nelle aree in espansione, con mercato più ampio o con elevata specializzazione produttiva. Come risultato, l’integrazione economica e monetaria tende a far crescere, insieme alla specializzazione, anche le differenze regionali.
A ben vedere, si tratta di un meccanismo che troviamo in azione in Italia nell’Ottocento.
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*Ricercatore t.d. di Storia economica dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria