Tutti assolti per i morti e i danni causati dall’alluvione del 18 novembre 2013 in Gallura. Tra gli imputati gli allora sindaci di Olbia, Gianni Giovannelli, e di Arzachena, Alberto Ragnedda, il capo della Protezione civile di Olbia Giuseppe Budroni e il dirigente dell’ufficio tecnico di Olbia Antonello Zanda. Erano accusati, a vario titolo, di omicidio colposo plurimo per non aver dato l’allarme per non aver dato l’allarme nonostante l’allerta diffusa dalla Protezione civile nazionale e regionale. La sentenza è arrivata dopo sei ore di camera di consiglio. La Procura aveva chiesto quattro condanne e due assoluzioni. Il pm Domenico Fiordalisi aveva invocato tre anni e sei mesi per Giovannelli, tre anni per Ragnedda, tre anni per Budroni, e 3 anni e 10 mesi per Zanda. Assoluzione invece chiesta per un altro dirigente comunale olbiese, Gabriella Palermo, e per il dirigente della ex Provincia Olbia-Tempio, Federico Ceruti Ferrarese. Dopo la lettura della sentenza i parenti hanno gridato “vergogna” e “assassini” ed è intervenuta la polizia per riportare l’ordine. “Prendo atto di questa decisione con profondo rispetto – commenta Giovannelli – sono stati quattro anni difficili, un processo lungo e articolato. Non sto gioendo perché si tratta di un evento che ha segnato la nostra città, ma sono soddisfatto della sentenza che ha escluso la responsabilità di tutti. Auguriamoci che non succeda più una cosa di questo genere alla nostra città. Voglio esprimere tutto il mio rispetto per tutte le parti, sia gli avvocati sia i giudici”. “È un momento molto triste”, ha detto all’Ansa Giampaolo Murrighile, avvocato di parte civile della famiglia di Patrizia Corona e Morgana Giagnoni, madre e bimba di 2 anni morte annegate in via Belgio. “Intendiamo rispettare questa sentenza, le sentenze non si commentano ma si impugnano. Restiamo della nostra posizione. Questa nostra azione non termina”.
La requisitoria del pm Fiordalisi: “Gravi negligenze”
Un mix di inerzia e negligenza a cavallo di quella domenica, il 17 novembre di quattro anni fa. Questo l’atteggiamento contestato agli amministratori locali – ai due sindaci galluresi, al capo della Protezione civile e al dirigente tecnico del Comune di Olbia – e alla base dell’accusa formulata e ripetuta più e più volte dal pm Domenico Fiordalisi durante la requisitoria del 4 settembre scorso. Un rischio sottovalutato per le 24 ore successive – secondo la Procura, ma non secondo il primo grado di giudizio – nonostante le previsioni fossero chiare. Dal pomeriggio di quel fine settimana e per un giorno intero non si fece nulla, così aveva ribadito Fiordalisi. O non abbastanza per prevenire quelle morti (tra cui due bambini) avvenute in gran parte nelle strade della città: né la chiusura delle scuole, né alcuna particolare precauzione o avviso. Queste le parole di Fiordalisi, per ora ribaltate dalla sentenza di assoluzione emessa oggi verso i quattro imputati per omicidio colposo e disastro colposo: “Sono gravissime le responsabilità del sindaco di Olbia – aveva spiegato il pm – per non aver informato la popolazione sull’arrivo dell’alluvione, correttamente prevista e segnalata come grave dalla Protezione civile regionale e nazionale con un fax inviato negli uffici della Protezione civile del Comune di Olbia domenica 17 novembre 2013, un giorno prima del tragico arrivo del ciclone Cleopatra”.
I tempi previsti per fronteggiare l’emergenza sarebbero stati totalmente disattesi, le prime azioni solo nel pomeriggio del 18 quando ormai c’erano già state le prime vittime. E ormai la parola prevenzione non aveva alcun senso. Non solo tempistiche ma totale diserzione dei regolamenti di legge vigenti in casi simili, come l’applicazione del Piano di emergenza comunale – nemmeno nelle aree considerate ‘rosse’ o l’immediata attivazione del Coc, il Centro operativo comunale: “Ci sono un centinaio di testimonianze – ha ricordato la pubblica accusa in Aula – che riferiscono della completa assenza di blocchi e presidi lungo le strade“. Motivazioni che si sono ripetute anche per il capo della Protezione civile cittadino, Giuseppe Budroni, e per il dirigente dell’ufficio tecnico di Olbia, Antonello Zanda. A cui si è contestata – però – anche la scarsa attenzione per la manutenzione: decine di canali, spesso tombati, di cui è piena la città non furono puliti nonostante una sollecitazione arrivata in un documento della polizia municipale appena due mesi prima del disastro. Nelle operazioni successive al passaggio di Cleopatra si trovò di tutto, anche bombole di gas. In città morirono in sei: la vittima più piccola aveva due anni: Morgana Giagoni, rimase intrappolata insieme alla mamma – Patrizia Corona – in un’auto nel canale di via Cina (zona sud); anche Enrico Mazzoccu, tre anni, morì insieme al padre Francesco: i due furono travolti da un torrente vicino a una frazione tra Olbia e Telti; morì invece annegata nella sua casa al primo piano, Anna Ragnedda, disabile di 83 anni, originaria di Arzachena; un’altra anziana Maria Massa, 88 anni, cadde nel fiume di acqua e fango che passava proprio sotto casa, era uscita probabilmente per cercare scampo e aiuto. Ad Arzachena le vittime appartenevano ad un’unica famiglia che arrivava dal Brasile e viveva in uno scantinato in cui entrarono tre metri d’acqua: morirono così – nel sonno – padre, madre e due ragazzi di 16 anni e 20 anni.
La trascuratezza e la speculazione che arrivano da lontano: Olbia città delle sanatorie
Il dramma di Olbia arriva però da lontano. Non è un caso, come avevano sottolineato gli esperti anche a caldo (tra tutti il geologo Fausto Pani) che il centro storico della città gallurese sia rimasto integro: “L’acqua ritrova sempre il suo percorso originario, anche se è stato coperto dal cemento”. E di cemento, spesso senza alcuna regia la città ne ha visto. Basta pensare che nei dieci anni – dal 1997 al 2007 – in cui è stato in carica il sindaco di Forza Italia, Settimo Nizzi (attualmente di nuovo primo cittadino) ci sono stati 17 piani di risanamento, interi quartieri sono stati ‘condonati’ quando ormai erano abitati. Addirittura sono stati costruiti edifici pubblici, come scuole – tra tutte la Maria Rocca del quartiere Bandinu – o un albergo in zone considerate ad alto rischio secondo il Pai, Piano di assetto idrogeologico. La distanza dai torrenti che puntualmente esondano e ritrovano il loro tracciato è ricorrente in tutta la mappa della città. E ci sono vari ponticelli a raso, senza alcuna protezione, che attraversano soprattutto sul riu Siligheddu: immagine simbolo della città durante l’emergenza. Uno di quei ponti è stato prima travolto dall’acqua del ciclone e poi ricostruito identico poco dopo, perché i soldi pubblici avevano un vincolo “di ripristino”, così aveva denunciato anche il sindaco Giovannelli a fine 2013.
Il piano di mitigazione: la trasformazione (impossibile) di Olbia
Passata l’emergenza è sempre tempo di (ri)costruzione: in ballo c’è il Piano Mancini, un piano nazionale firmato da un ingegnere del Politecnico di Milano, per la mitigazione del rischio idrogeologico. Per avviare i lavori ci sono in ballo 16 milioni di euro, dal governo nel quadro del progetto nazionale Italia sicura. Ma, come è successo per la scuola Maria Rocca – che si vuole costruire identica nonostante i rischi – gli stessi abitanti danno battaglia per alcune opere considerate necessarie anche a causa degli espropri di terreni. E non mancano le polemiche politiche con in prima linea l’agguerrito primo cittadino Nizzi. L’ultimo botta e risposta che varca il Tirreno risale a inizio mese – in occasione dell’alluvione di Livorno con 8 morti – quando il sindaco ha risposto al deputato Pd Ermete Realacci (presidente della commissione ambiente e territorio alla Camera) che aveva accusato di lassismo e tempi morti il Comune proprio sull’utilizzo di quei soldi.
Nizzi ne fa una questione di competenze, ormai in capo alla Regione dal 2016. Anche se lo stesso piano non ha avuto vita facile ed è stato più volte contestato al punto che lo stesso Nizzi ha promosso un contro-piano. Cosa non va nel Piano ufficiale sommerso dalle polemiche e dalle assemblee infuocate? Soprattutto le vasche di laminazione che renderebbero meno impetuosi i corsi d’acqua costretti dal cemento, un’operazione da fare a monte e che – in ogni caso – questo sempre il tasto dolente, prevede degli espropri. I privati contro il pubblico, sostenuti anche da alcuni politici tra cui l’ex presidente della Regione (ora deputato di Unidos) Mauro Pili, in un comunicato firmato anche dai coordinatori provinciale Tonino Pizzadili, e cittadino Antonio Appeddu si legge: “La Regione cerca bombe nei terreni dove vorrebbe realizzare le mega dighe di laminazione proprio dentro Olbia. Un piano senza precedenti che ora passa per la verifica degli ordigni bellici, indagini geognostiche e di caratterizzazione e poi passerà alla fase degli espropri“.
Non si vogliono quelle che son definite “le dighe dentro la città’’. Per ora tutto fermo quindi e si procede con la distruzione delle ‘opere incongrue’, tra tutte anche una strada – la bretella vicino allo stadio Nespoli – rasa al suolo. Fino allo scorso giugno si trovava sopra la foce del solito rio Siligheddu. A nulla è valsa l’opposizione di un comitato popolare.