di Mirko Annunziata
Domenica 1 ottobre si terrà, forse, il referendum sull’indipendenza della Catalogna osteggiato dal governo spagnolo. Madrid ha ordinato ai “Mossos d’Esquadra”, la polizia catalana, di occupare le scuole adibite alla consultazione, mentre il governo catalano continua a garantire che il referendum in qualche modo si farà.
Mentre sale la tensione sotto il silenzio assordante della comunità europea, in Italia l’opinione pubblica cerca d’interpretare quanto sta avvenendo secondo la classica direttrice destra-sinistra. E poiché l’indipendentismo catalano è tradizionalmente di sinistra, non è raro vedere da un lato uomini della destra tenacemente legati all’idea di Europa dei Popoli fare il tifo per il centralismo spagnolo e, dall’altro, progressisti di sinistra che si riscoprono d’improvviso identitari.
Questa chiave di lettura è uno strumento molto efficace per non capire nulla sul fenomeno catalano anzi, porta a vedere l’evoluzione dei rapporti tra Spagna e Catalogna in maniera sostanzialmente capovolta. Perché la Catalogna è uno di quei pochi casi in cui non è la politica a cercare riscrivere la storia, ma è quest’ultima a dettare senza soluzione d’appello l’agenda alla politica. La collocazione a sinistra del movimento indipendentista catalano non è altri che una reazione naturale al posizionamento a destra delle forze centraliste spagnole, che ha trovato il suo culmine nel periodo franchista. Si tratta tuttavia di movimenti dovuti a radici storiche ben più antiche e profonde rispetto alle divisioni politiche contemporanee e che affondano nel cuore dell’identità spagnola.
Solitamente siamo portati a immaginare il fenomeno indipendentista come la volontà di una componente minoritaria e marginale di un popolo inglobato all’interno dei confini di uno Stato che considera straniero, spesso a causa di conquiste pregresse. Questa visione di un popolo maggioritario oppressore contro un altro popolo minoritario e oppresso tuttavia non rappresenta affatto il caso catalano. La Spagna nacque ufficialmente nel 1492 per mezzo dell’unione tra Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona (regno che, a dispetto del nome, era prevalentemente gestito da catalani, soprattutto dai ricchi mercanti di Barcellona). Quando il sovrano aragonese decise di fondere i due regni, non aveva alcun ragione di credere che il suo regno sarebbe col tempo diventato un territorio satellite di quello della consorte.
In quel tempo, infatti, la potenza delle due nazioni era sostanzialmente equivalente, e mentre la Castiglia aveva appena portato a termine la “Reconquista” cacciando i mori da Grenada, il Regno di Aragona era a capo di un vero e proprio impero catalano nel Mediterraneo. Il Mezzogiorno d’Italia e la Sardegna che per secoli rimasero sotto il dominio spagnolo furono una dote dei catalani alla Spagna, una presenza ancora oggi dimostrata dalla presenza della “senyera”, la tradizionale bandiera catalana a strisce giallo-rosse, nei gonfaloni di molte città e territori italiani.
A conferire al nuovo paese un’identità sempre più “castigliana” mettendo progressivamente ai margini i catalani non furono sconfitte sul campo, bensì vicissitudini della storia che nessuno all’epoca poteva minimamente immaginare. Sempre nel 1492 Cristoforo Colombo sbarca in America, mutando per sempre il destino del giovane regno spagnolo, il quale nei secoli successivi riversò i suoi sforzi verso le coste castigliane dell’Atlantico per costruire il suo enorme impero coloniale. Sulle sponde orientali catalane del Mediterraneo, invece, i traffici commerciali che avevano reso grande Barcellona erano stati resi poco sicuri dall’Impero Ottomano e dei suoi alleati in Nord Africa.
La Spagna perciò diventò sempre più espressione degli interessi e delle aspettative castigliane, con i catalani che subirono un declino non troppo diverso da quello di genovesi e veneziani. Un’agonia che trovò il suo compimento con l’assedio di Barcellona del 1714, che relegò definitivamente la Catalogna a regione minoritaria di una Spagna definitivamente castiglianizzata. Un colpo che la Spagna pagò comunque a caro prezzo in quanto proprio dal XVIII Secolo iniziò il suo declino. Sarebbe opportuno chiedersi quale destino avrebbe avuto l’Impero Spagnolo e i paesi nati dalle sue ceneri se Barcellona si fosse affacciata sull’Atlantico e se al posto della mentalità latifondista ed economicamente sterile dei nobiluomini castigliani ci fosse stato il dinamismo imprenditoriale dei mercanti catalani.
Oggi la Spagna è alla prova del nove e l’utilizzo della forza potrebbe solo peggiorare una situazione già compromessa. La Catalogna non è minimamente paragonabile ai Paesi Baschi, i quali sono stati comunque domati dopo decenni di sofferenza e pensare di colpirla duramente, addirittura con la forza militare, sarebbe per Madrid come prendere un palo di frassino e piantarselo nel cuore. D’altra parte l’eventuale uscita della Catalogna darebbe il via a una serie di movimenti centripeti tra le altre nazioni non castigliane e ciò potrebbe inesorabilmente alla fine definitiva della Spagna.
Madrid se intende sopravvivere, non ha altre opzioni che riconoscere al più presto ai catalani il posto che spetta loro dal principio come parte costituente della nazione spagnola. Invece di mandare poliziotti su poliziotti, Rajoy potrebbe cominciare a risolvere la situazione rilanciando il banco rispetto agli indipendentisti proponendo l’inserimento del catalano come lingua ufficiale di tutta la Spagna a fianco del castigliano. Un colpo di teatro che a molti potrà apparire come provocazione, ma che dimostrerebbe a tutti, a partire dagli stessi catalani, quanto la Spagna intenda rilanciarsi e non implodere su sé stessa sotto il peso di un passato che si ostina a non voler riconoscere.