Nel dare il benvenuto ai loro colleghi del G7 in occasione del summit su lavoro, scienza e industria a Venaria Reale, i ministri Carlo Calenda, Valeria Fedeli e Giuliano Poletti avranno forse raccontato quanto è competitivo il nostro paese. Avranno magari sostenuto, come già fatto nei mesi scorsi da Matteo Renzi (e come a suo tempo fece la ministra Maria Stella Gelmini), che in Italia i fondi pubblici per la ricerca sono in linea con la media europea. Una fake news, puntualmente smontata, ma di cui non siamo ancora riusciti a liberarci quando si parla di università.
Certo, sarebbe stato più imbarazzante per la delegazione italiana raccontare che il nostro paese è agli ultimi posti per gli investimenti in ricerca e sviluppo: secondo i dati Ocse la percentuale di spesa sul Pil è infatti pari all’1,3%, a fronte di una media europea del 2,4%. Cosa avrebbero potuto dire i nostri ad esempio ai tedeschi, che nel 2015 hanno investito in ricerca e sviluppo tre volte quello che ha stanziato l’Italia? O ai colleghi del Regno Unito, dove ci sono quasi 500mila ricercatori, mentre nel nostro paese se ne contano meno di 170mila? O ancora ai francesi, dove il numero di addetti alla ricerca è oltre il doppio di quello italiano? Forse meglio tacere.
Se invece avessero scelto la strada della sincerità, Fedeli & C. si sarebbero trovati nella scomoda situazione di dover spiegare ai loro colleghi come mai si dedicano così poche risorse all’università pubblica in un paese che è ultimo nell’Unione Europea per la percentuale di laureati nella fascia 25-34 anni e che ha il più alto tasso di Neet (giovani che non studiano e non lavorano), con un trend in crescita in modo preoccupante.
Non servono analisi sofisticate per capire che, se c’è una cosa di cui il nostro paese ha bisogno oggi è investire in formazione e in ricerca. Come giustificare allora agli ospiti del G7 che negli ultimi dieci anni le risorse disponibili per l’università sono diminuite del 20%? Come spiegare che, in un paese che dovrebbe incentivare i suoi giovani a proseguire nel loro percorso di formazione, le tasse universitarie sono tra le più alte d’Europa e gli atenei, non riuscendo a garantire un’offerta didattica adeguata a causa del numero insufficiente di docenti, non trovano di meglio da fare che provare a reintrodurre i corsi a numero chiuso? Con quali argomenti sostenere le ragioni di un sistema che si regge sul lavoro quotidiano di un’intera generazione di ricercatrici e ricercatori precari, senza prospettive di stabilizzazione?
Una bella fatica. Forse meglio continuare a dire che all’università italiana le risorse non mancano e che molto si è fatto, e si sta facendo, nel solco della miglior tradizione gelmin-renziana. Continuando a ripeterlo, magari prima o poi diventa vero?