di Flaminio de Castelmur per @SpazioEconomia

Le vicende monetarie e economiche degli ultimi anni (partendo dalla crisi del debito di alcune Nazioni al Whatever it takes di Draghi del 2012) hanno portato alla ribalta dei dibattiti e dei giornali, l’inflazione e le politiche monetarie delle Banche centrali.

Innanzitutto, ricordiamo che l’inflazione è un fenomeno economico per cui si ha un processo di aumento del livello generale dei prezzi, con la conseguente diminuzione del valore (potere d’acquisto) della moneta. L’inflazione è così sinonimo di svalutazione ed è un fenomeno sostanzialmente monetario.

Gran parte dei Paesi misura l’inflazione mediante un sistema denominato “indice dei prezzi al consumo” (Ipc). Per costruirlo si parte da un’analisi dei profili dei consumatori intesa a individuare i beni e i servizi generalmente più acquistati e quindi in qualche misura più rappresentativi delle preferenze di un consumatore medio di una determinata economia.

Tutti i beni e servizi consumati dalle famiglie nel corso dell’anno sono rappresentati dal cosiddetto “paniere”. Ciascuna voce di spesa contenuta nel paniere ha un prezzo, che può variare nel tempo. Le valutazioni così formate portano alla definizione di un’inflazione congiunturale, che esprime la variazione dei prezzi rispetto al mese che precede la rilevazione, un’inflazione tendenziale, che esprime la variazione dei prezzi rispetto allo stesso mese della rilevazione, ma dell’anno precedente e ancora un’inflazione annuale, che esprime la variazione della media dei dodici indici relativi ai mesi dell’ultimo anno.

Vi sono diverse origini dell’inflazione: vi è l’inflazione da costi, per la quale l’aumento dei costi può essere causato da un aumento dei prezzi delle materie prime, dall’aumento dei salari, da più alte aliquote d’imposta e dagli effetti sui tassi di cambio. Troviamo poi l’inflazione da domanda, che si ha quando la domanda supera l’offerta. Il fatto che le aziende non riescano a soddisfare l’aumento di domanda porta a una pressione ascensionale sui prezzi. L’inflazione da profitti si rileva quando le aziende aumentano i prezzi di beni o servizi al solo scopo di aumentare i profitti. Le attuali condizioni competitive dei mercati la rendono più rara. Abbiamo infine l’inflazione importata, dovuta all’aumento dei prezzi di beni o servizi acquistati all’estero. L’economia italiana, di trasformazione e senza grandi risorse naturali, può esservi soggetta.

Inflazione e crescita economica sono indissolubilmente legati. È però fondamentale che si tratti di un’inflazione relativamente bassa e controllata. La maggior parte delle banche centrali mira a un livello dal 2 al 3% su base annua. Quando l’inflazione è bassa, generalmente gli aumenti dei prezzi sono compensati dagli aumenti dei salari, per cui i consumatori alla fine non ci rimettono. In altre parole, il potere d’acquisto resta lo stesso. Quando però l’inflazione è alta, si verifica la pressione sui salari, gli interessi aumentano e si riducono i cambi valutari, il che mette ulteriormente sotto pressione la stabilità dei prezzi.

Le conseguenze di un’inflazione alta sono:
1. viene scoraggiato il risparmio perché in futuro si potrà acquistare una quantità minore di beni rispetto al presente;
2. l’inflazione danneggia anche gli investimenti, in quanto scoraggia le persone che vogliono investire, ci sarà così una minore produzione;
3. l’aumento dei prezzi scoraggia le esportazioni e incoraggia le importazioni a meno che l’aumento si verifichi alle stesso modo anche all’estero.

Le retribuzioni sono effettivamente indicizzate e tendono a crescere con l’aumento del livello generale dei prezzi. In questo modo, poiché le imposte sul reddito sono progressive (redditi più elevati hanno secondo percentuali più elevate), lo Stato incamera imposte ogni anno superiori. Questo fenomeno viene definito fiscal drag o drenaggio fiscale. Gli ultimi anni, con un’inflazione bassa se non negativa, hanno fatto accantonare il problema, che comunque potrebbe ripresentarsi in futuro.

Per eliminare il fiscal drag sarebbe sufficiente ritoccare le aliquote, abbassandole adeguatamente, cosa che il fisco dovrebbe periodicamente provvedere a effettuare.

Il metodo più rilevante per tenere l’inflazione sotto controllo sono le politiche monetarie degli Stati. Le banche centrali puntano generalmente a un’inflazione dal 2 al 3% su base annua. Quando l’inflazione su base annua si attesta a un livello simile, ciò risulta generalmente favorevole all’economia.

Lo strumento che le banche centrali possono utilizzare allo scopo è il tasso d’interesse. Aumentando i tassi d’interesse e quindi limitando l’aumento della liquidità disponibile, i prezzi si ridurranno oppure aumenteranno meno velocemente. I prestiti diventano infatti più costosi perché la gente ha meno da spendere. Tale misura di regolazione ha dunque un effetto frenante sull’economia.

Abbiamo assistito ultimamente anche all’utilizzo di “mezzi non convenzionali” da parte delle banche centrali, consistenti nel cosiddetto Quantitative easing, acquisto di forti quantità di titoli pubblici con immissione di moneta nei mercati. Ottenendo indirettamente una riduzione di tassi e di inflazione. Sarà interessante vederne la fine e le conseguenze che ne verranno.

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