Nessuna sorpresa dal punto di vista del risultato: in Catalogna, la maggioranza dei votanti che hanno preso parte alla consultazione referendaria di domenica scorsa si è espressa in favore dell’indipendenza della regione autonoma dalla Spagna. Una maggioranza forte, con il 90% delle schede a favore del Sì, ma un numero complessivo di voti conteggiati comunque non sufficiente a superare la soglia del 50% più uno dell’elettorato attivo. “Conteggiati” e non “espressi”, e la precisazione è d’obbligo: a seguito dell’intervento della Guardia Civil durante la giornata del voto, circa 300 seggi nella regione sono stati chiusi o sequestrati, con la conseguente impossibilità da parte del governo catalano di avere un dato definitivo e completo sull’affluenza generale e sull’effettiva percentuale di preferenze espresse per il Sì o per il No.
Tra le manifestazioni di piazza e la repressione della polizia spagnola, che ha causato un numero finale di 844 persone che hanno necessitato di assistenza medica secondo il Dipartimento della Salute catalano, il referendum per l’indipendenza si è celebrato in un clima di altissima tensione e grande confusione. Le reazioni nel resto d’Europa e del mondo sono state molteplici e diverse, lungo tre traiettorie che si configurano comunque tendenzialmente piuttosto nette: da media, social e popolazione, la solidarietà verso i catalani è forte e decisa, in particolar modo alla luce della severa repressione che si sono trovati a subire per le strade di Barcellona e delle altre più piccole città della regione; dall’altro lato, i capi di Stato e i maggiori esponenti delle istituzioni europee si sono espressi attraverso una condanna più o meno esplicita delle violenze verificatesi a Barcellona, pur ribadendo che la questione sia unicamente interna al Paese e che la legittimità delle azioni del governo di Madrid non viene messa in discussione – tanto per quel che riguarda la posizione di Rajoy, quanto per ciò che concerne la sentenza della Corte costituzionale spagnola che ha decretato il referendum catalano illegittimo fin dall’inizio.
Ho raggiunto il professore Michele Carducci, docente di Politiche costituzionali comparate presso l’Università del Salento, per provare a mettere ordine in una situazione in cui l’assetto costituzionale spagnolo sembra correre il rischio di essere sovvertito o definitivamente sconvolto. Sono due i fatti incontrovertibili da cui partire: “Il referendum catalano è illegittimo perché contrario alla Costituzione spagnola e la Costituzione spagnola, piaccia o non piaccia, è lo strumento che ha garantito e garantisce a tutti, catalani compresi, la democrazia e la regolarità dei processi decisionali”; in secondo luogo, poi, “alla consultazione di domenica la maggioranza dei cittadini catalani si è astenuta dal voto. Si può davvero pensare che il futuro della democrazia di un intero Stato possa dipendere dal 40% dei cittadini di una comunità autonoma?”.
Il referendum catalano, quindi, non solo può essere considerato illegittimo da un punto di vista strettamente formale, ma costituirebbe un vero e proprio “atto eversivo della democrazia, se per democrazia si vuole considerare quel regime di regole e procedimenti basati sul rispetto tra maggioranze e minoranze. Spostare l’asse sulla rilevanza di un consenso comunque minoritario, significa coltivare una concezione assai paradossale e pericolosissima della democrazia, dove i pochi decidono per tutti e su tutto”.
Per legge, dunque, se l’assemblea catalana dovesse proclamare l’indipendenza con un atto unilaterale, come paventato dal governatore Puigdemont, si “consumerebbe un illecito costituzionale gravissimo, da sanzionare nei modi indicati dall’art. 155 della Costituzione. Su queste vicende non si può soprassedere. Ribadisco il punto: l’eversione risiede nel pretendere che il 40% di una comunità segni l’agenda futura di un intero Stato”.
Restano da analizzare, però, i punti riguardanti la proporzionalità della reazione del governo centrale e il ruolo che l’Europa potrebbe avere – e che per ora ha deciso di non assumersi – nella vicenda. Sul primo tema, da una prospettiva strettamente concreta, non si può negare che il potere d’intervento si riveli una risorsa effettivamente utilizzabile dal governo centrale per contrastare lo svolgimento della consultazione. Tuttavia, continua Carducci, “questo non significa che le modalità siano state di per sé corrette. Anche in questo caso, però, non bisogna cadere nell’errore cognitivo di scambiare la causa con l’effetto: in uno Stato democratico di diritto, la violenza si manifesta non solo attraverso l’uso della forza, ma anche nella pretesa politica unilaterale di far valere le proprie ragioni disprezzando regole comuni di garanzia del confronto e del giudizio. Pertanto, le responsabilità degli eccessi vanno individuate tanto in Rajoy quanto in Puigdemont”.
Lo stesso Puigdemont, sia in riferimento alla repressione attuata dal governo di Rajoy che alla pretesa di legittimità del diritto dei catalani a vivere in uno Stato indipendente, ha rivolto in più occasioni un appello all’Europa per fare in modo che le istituzioni intervengano per facilitare il raggiungimento di una soluzione mediata tra Madrid e Barcellona. Secondo Carducci, però, “Puigdemont esprime ragionamenti assai confusi, contraddittori e velleitari. Si appella all’Europa senza dichiarare quali violazioni dello Stato di diritto sarebbero state perpetrate a danno dei territori da lui rappresentati (unico titolo per chiedere seriamente, ossia non in modo ciarlatano, l’intervento dell’Europa). In realtà, la violazione dello Stato di diritto è arrivata da lui. Pertanto, almeno in questo caso, ha fatto bene l’Europa a tacere”. Nonostante ciò, “è pur vero che l’Unione Europea dovrà dire, prima o poi, che cosa vuole fare da grande con le democrazie sempre più sfilacciate di non pochi suoi paesi membri. Le sue ambivalenze, purtroppo, non sono una novità e, se permangono, c’è poco da sperare su un futuro da unione “politica””.
Sembra che Bruxelles, e le varie capitali che si trovano ad affrontare l’insorgenza di questioni identitarie a livello regionale, non potrebbero accettare di vedere una Catalogna indipendente. Per le istituzioni europee “significherebbe l’inizio della fine. In Europa, la democrazia si sta trasformando nella sua negazione: invece di essere integrazione reciproca, è smembramento unilaterale (exit); invece di essere inclusione sociale e culturale, è apartheid”. Non da ultimo, dunque, “le espressioni festose di domenica scorsa a Barcellona hanno celebrato il rituale tipico della democrazia “negativa” (dove ci si trova d’accordo e si vota, semplicemente perché si è “contro” qualcosa o qualcuno): un canto del cigno”. Cosa dovrebbero fare le istituzioni europee, a questo punto? “Cambiare radicalmente, abbandonare il funzionalismo, optare per il coraggio politico dell’unificazione, graduale ma effettiva. Possiamo e dobbiamo sperarlo. Nel 1922, José Ortega y Gasset pubblicò un testo significativamente intitolato “España invertebrada“, estremamente attuale per testare le deboli vertebre non solo – o non più – dell’unità democratica spagnola, ma dell’intera Europa”.
L’impressione è che la situazione sia stata gestita in modo avventato tanto da Barcellona nelle intenzioni e nei fatti, quanto da Madrid nella risposta alle istanze dei catalani. Nel giorno dello sciopero generale nella regione, dopo che l’Europa ha deciso di tenersi ai margini della questione, dopo che Rajoy ha ribadito la linea di sempre e Puigdemont ha chiamato a gran voce la necessità di una mediazione internazionale, una conclusione pare essere sempre più chiara: la frattura tra Spagna e Catalogna diventa ormai insanabile, e la questione identitaria non può che trarne ulteriore slancio. Ma se la scommessa di Puigdemont mirava a capitalizzare il momentum del movimento indipendentista, allo stato attuale delle cose, l’unica conseguenza tangibile che ha generato sembra essere l’ulteriore isolamento internazionale delle istanze catalane. Una posizione che la Generalitat, se ha davvero intenzione di superare il momento del conflitto con Madrid, non può permettersi di mantenere.