Il sospetto assume contorni inquietanti dopo che il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e il sostituto della Direziona nazionale antimafia Francesco Curcio, hanno deciso di inserire nel fascicolo dell’inchiesta le rivelazioni fatte il 4 aprile 2014 dall’ex ambasciatore Paolo Fulci, ex capo del Cesis, ai pm di Palermo Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia
Il 30 ottobre inizia, davanti alla II sezione della corte d’Assise di Reggio Calabria, il processo al boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e a quello di Melicucco Rocco Santo Filippone, arrestati nelle settimane scorse con l’accusa di essere i mandanti dell’agguato del gennaio 1994 in cui morirono i due carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo.
Un agguato, quello consumato sulla Salerno-Reggio, all’altezza dello svincolo di Scilla, che non fu il solo. Altri militari dell’Arma, infatti, erano stati feriti in diversi attentati avvenuti in provincia di Reggio. Attentati che, per la Dda guidata dal procuratore Federico Cafiero De Raho e dell’aggiunto Giuseppe Lombardo, rientrano a pieno titolo nell’elenco delle “stragi continentali” che hanno insanguinato il Paese nei primi anni novanta. A sparare all’epoca sono stati Giuseppe Calabrò e Consolato Villani, oggi collaboratori di giustizia, ritenuti pedine da sacrificare in nome della strategia stragista dei palermitani di Totò Riina.
Una strategia che, in Calabria, oltre a Giuseppe Graviano ha visto protagonista il boss Rocco Santo Filippone (difeso dall’avvocato Guido Contestabile), ritenuto esponente di spicco della cosca Piromalli di Gioia Tauro. Sono loro, stando alla ricostruzione che emerge dall’inchiesta “’Ndrangheta stragista” condotta dalla squadra Mobile, i mandanti che hanno organizzato gli attentati ai carabinieri. Nelle pieghe dei faldoni depositati in Corte d’Assise, però, sono finite anche diverse informative sul rapporto tra Cosa nostra, ‘ndrangheta e pezzi deviati dello Stato.
I servizi segreti, infatti, potrebbero avere avuto un ruolo nella strategia stragista degli anni novanta. Il sospetto assume contorni inquietanti dopo che il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e il sostituto della Direziona nazionale antimafia Francesco Curcio, hanno deciso di inserire nel fascicolo dell’inchiesta le rivelazioni fatte il 4 aprile 2014 dall’ex ambasciatore Paolo Fulci, ex capo del Cesis, ai pm di Palermo Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia. Fu Fulci, oggi presidente della Ferrero, a spiegare ai magistrati siciliani i sospetti sulle stragi “continentali” rivendicate dalla “Falange Armata”. “Un funzionario, che ora è morto, che si chiama De Luca del Sisde, che lavorava con me al Cesis, – son le parole di Fulci – mi portò due cartine. In una cartina c’era i luoghi da cui partivano tutte le telefonate di Falange Armata, nell’altra cartina i luoghi dove sono situate le sedi periferiche del Sismi e queste due cartine coincidevano perfettamente”.
Quando iniziarono gli attentati, Fulci aveva già lasciato il Cesis e divenne ambasciatore all’Onu. A 83 anni, nel 2014 cercò di mettere in fila i ricordi e ci riuscì: “Leggo sul New York Time in grande rilievo la notizia che ci sono queste bombe contemporaneamente anche a Firenze e a Roma. All’interno dei servizi c’è solo una cellula, che si chiama ‘Ossi’, molto esperta e addestrata nel fare questo genere di guerriglia urbana, di piazzare polveri, fare attentati”. Nel sua travagliata esperienza ai servizi segreti, Fulci era riuscito ad avere anche i nomi dei componenti della sezione “Ossi”. Nomi, anche questi, finiti nel fascicolo del Dda di Reggio al carteggio tra il Sismi e la presidenza del Consiglio dei ministri di allora: “Avevo costretto il capo del Sismi a darmi i nomi dei componenti di questa cellula”. Quell’elenco, Fulci lo conservò come una sorta di assicurazione sulla vita: “Era un foglio di carta con questi nomi e quindi mia moglie sapeva che se morivo ammazzato in malo modo doveva andare là”.
Nel periodo delle stragi, l’ambasciatore decise di tornare in Italia. Solo per 24 ore, giusto il tempo di incontrare un ufficiale dei carabinieri all’hotel “Principe di Savoia”: “Vengo qui a Milano da New York apposta, incontro il comandante generale dei carabinieri Federici e gli dico: ‘Guardi questi sono i nomi delle persone dei servizi che sanno maneggiare gli esplosivi e le armi, controllate tutti questi altri signori. Se questi erano altrove potete escludere nel modo più assoluto che i servizi c’entrino in questa sporca storia’”. A questo punto dell’interrogatorio, il confronto tra Fulci e i magistrati svela l’ipotesi più inquietante che può avere caratterizzato la strategia stragista di cosa nostra e ‘ndrangheta. Per un attimo, i ruoli sembrano invertiti ed è l’ambasciatore a fare domande: “Venne fuori che erano i mafiosi, giusto? Sono stati i mafiosi, siamo sicuri eh?”
“I mafiosi sono stati condannati con sentenza passata in giudicato, – risponde il pm Di Matteo – ma bisogna vedere per esempio nella scelta dei luoghi, se qualcuno abbia guidato i mafiosi, perché… sa questi mafiosi li conosciamo. Quelli che sono stati condannati forse non sapevano nemmeno dove si trovasse la Galleria degli Uffizi”. Storie che si intrecciano tra loro. Uomini che si muovono nell’ombra e che rispondono ai nomi nascosti dietro gli omissis inseriti dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo nel registro degli indagati: pezzi delle istituzioni, professionisti, massoni e insospettabili personaggi che rappresentano il comune denominatore del periodo stragista di cosa nostra e della componente segreta delle cosche calabresi.
È sufficiente leggere le pagine delle inchieste “‘Ndrangheta stragista” e “Gotha” per trovare i riferimenti su quella che il pentito Nino Logiudice, in un memoriale consegnato ai pm nel giugno scorso, ha definito la “super loggia segreta” alla mercé della quale ci sono politici alla mercé della ‘ndrangheta-massonica. Tra questi anche il senatore Antonio Caridi, imputato per associazione mafiosa nel processo “Gotha”. Nel suo memoriale, Logiudice ricorda ai pm una confidenza ricevuta in carcere da un affiliato: “Mi disse che Peppe De Stefano, insieme ad altri si riunirono a Vibo in un residence”. Assieme ai De Stefano, ai Piromalli e ai rappresentanti della mafia siciliana, per il collaboratore c’era anche Licio Gelli. Lo scopo di quella riunione era di destabilizzare il Paese, puntare a un potere separatista parallelo allo Stato italiano e far nascere un nuovo partito della Lega in Calabria”. Mondi diversi che si parlavano dagli anni settanta quando “era nata una sorta di criminalità eccelsa che faceva affari con personaggi di rilievo come per esempio: Licio Gelli, Franco Freda, Fefé Zerbi, Stefano Delle Chiaie e il famosissimo avvocato Paolo Romeo”.