Il film di Robin Campillo fa riemergere dagli archivi della storia le gesta di Act Up, l’associazione di lotta contro l’AIDS che iniziò ad operare in Francia nel 1989. Il regista: "Leggendo di questa epidemia capii che qualcosa di molto grave stava accadendo"
Fischietti, cartelli, rapide incursioni in convegni e uffici di multinazionali del farmaco, sacche di sangue (finto) gettate su muri e vetrate, humor nero. Esce in 40 copie distribuito da Teodora, 120 battiti al minuto, il film di Robin Campillo che fa riemergere dagli archivi della storia le gesta di Act Up, l’associazione di lotta contro l’AIDS che iniziò ad operare in Francia nel 1989. Omosessuali e non solo, per la maggior parte sieropositivi, che attraverso riunioni ed incontri provarono ad organizzare una protesta non violenta, pratica ed efficace, per scuotere governanti, medici e funzionari Big Pharma, di fronte all’epidemia mortale dell’ultimo scorcio di Novecento. Inizia proprio così nei primi anni novanta come una specie di Rashomon dell’attivismo, 120 battiti, dietro le quinte di un palco su cui luminari del farmaco e della ricerca stanno esponendo con vaghezza soluzioni farmacologiche per contrastare quello che in francese si traduce “sida”. A dirigere il gruppetto c’è la sempre bellissima Adele Haenel in bomberino e t-shirt, poi uno degli attivisti decide di lanciare un gavettone con sangue finto in faccia al relatore principale. Prende le mosse da qui 120 battiti, per mostrare subito cosa volesse dire per dei “malati” ingurgitare inefficaci pillole e allo stesso tempo stare in piedi per lottare, farsi sentire, ottenere risposte, allontanare la morte, vivere come gli altri esseri umani. Una protesta non violenta ma plateale, clamorosa, mediatica, quando ancora si attendeva il tg della sera o il quotidiano del mattino per capire cosa stesse succedendo nel mondo.
“All’epoca nemmeno c’era Internet e la polizia nel fermare le manifestazioni di protesta non era così violenta come oggi”, spiega al FQMagazine il regista Robin Campillo. 55 anni, un paio di lungometraggi alle spalle tra cui Les revenants, che è diventata una serie tv USA, come parecchi script di peso (Vers le Sud e La classe), Campillo visse in prima persona, da ventenne gli avvenimenti raccontati nel suo ultimo film. “Quando lessi i primi articoli sull’Aids in Francia nel 1990 ero un tizio qualunque che voleva fare la scuola di cinema e diventare un regista. Leggendo di questa epidemia capii che qualcosa di molto grave stava accadendo. Avevo una gran paura, le persone morivano in massa. Bisogna immaginare che all’epoca avevo già avuto rapporti sessuali con dei partner occasionali e avevo paura di essere stato contagiato. Entrai in Act Up nel 1992 e feci militanza attiva fino al 1997”.
120 battiti, questa accelerazione del ritmo respiratorio, l’ “élan vital” di una comunità gay che, tanto per capire che aria (non) tirasse in quegli anni, aveva contro perfino bislacche teorizzazioni di Jean Baudrillard che scriveva dell’AIDS come malattia tipica degli “incestuosi”, dei “gruppi a circuito chiuso”, è uno di quei film della memoria che mescola finzione tragica a stralci documentari sgranati in Vhs, e si sbilancia da metà in avanti (sono due ore e venti di durata) nello strapiombo di uno dei due protagonisti, Sean, che in pochi mesi morirà tra cure impossibili. “Essere registi è un atto politico”, continua Campillo. “Nella messa in scena infatti mostro la dominazione della politica e delle multinazionali e allo stesso tempo cerco di far percepire la sensualità di come si viveva all’epoca: perché la gente danzava, faceva l’amore, come ci si sentiva fisicamente in quel periodo”. E se per le giovani generazioni di oggi parlare di preservativi e prevenzione a scuola fa quasi sorridere, le incursioni improvvise di Act Up dentro un’aula con tanto di resa dei conti in cortile con presidi e insegnanti infuriati, o quelle dentro gli uffici di una multinazionale del farmaco a inzozzare vetri di sangue finto e poi sdraiarsi per terra facendosi gandhianamente arrestare, rimangono eventi di protesta eccezionali e d’avanguardia. “C’era una sorta di violenza in quello che facevamo, qualcosa di verbale ma non di fisico – conclude il regista – Eravamo propositivi ed inventivi, parlavamo in modo diretto di sessualità e malattie sessualmente trasmissibili quando nessuno ma davvero nessuno lo faceva. Oggi viviamo un tempo chiaramente più violento soprattutto per via del terrorismo. Vivo a Parigi e so di cosa parlo. Ma ultimamente anche prima degli attacchi terroristici entrare ad un convegno internazionale, come facevamo allora, ed interrompere i ministri della salute ci costerebbe la prigione. Per noi, però, quella lotta, quel combattimento politico, erano una questione di sopravvivenza”. 120 battiti ha vinto il Grand Prix all’ultima Cannes 2017, con tanto di elogio del presidente di giuria Pedro Almodovar.