Vi presento un’altra storia d’immigrazione: una storia particolare ed emblematica allo stesso tempo. È la storia di Veronika, la badante che si occupa dei miei anziani genitori.

Veronika è una vera benedizione per la mia famiglia. È ben inserita e dedica ai miei genitori tutta l’attenzione necessaria, oltre a ricoprirli di affetto sincero. Per noi figli è un aiuto insostituibile, prezioso e vitale. Ho chiesto a Veronika di raccontarsi. In Italia sono tante le famiglie che affidano i propri anziani alle cure di una “badante venuta dall’Est”, eppure spesso di queste donne sappiamo poco. Ecco in sintesi – ma nella maniera più fedele possibile – il racconto di Veronika.

 

Mi chiamo Veronika e ho 37 anni, appena compiuti. Sono arrivata in Italia un paio di anni fa, ma non era la prima volta. Ero già stata qui altre quattro volte, altrettante volte ero ritornata a casa. Rientravo nel mio paese ogni volta che finiva il lavoro.

La prima volta che sono venuta in Italia avevo 25 anni, li ho compiuti qui e sono rimasta per tre anni. Vengo dall’Ucraina, sono sposata da 15 anni e ho un figlio di 14 anni che si chiama Serghei. Serghei è rimasto a vivere con i miei e con mio marito, mia mamma gli prepara da mangiare. Mi mancano tanto tutti, ma soprattutto mio figlio.

Sto bene qui, vado d’accordo con le persone con cui vivo ed è stato così ogni volta. Però la mancanza delle persone a cui voglio bene è sempre forte. Questa cosa non cambia mai, non mi sono mai abituata. È così per tutte le donne straniere che come me fanno le badanti, non solo per me.

Il mio lavoro è più o meno uguale tutti i giorni. Ogni giorno ho tre ore libere, nel fine settimana sono libera la domenica. Nelle ore libere incontro le mie amiche, alcune sono anche mie compaesane e abitano vicino a dove lavoro e vivo. Mangiamo assieme un gelato oppure facciamo un giro nel parco o andiamo al centro commerciale a fare qualche piccolo acquisto. Delle volte, nel tempo libero, faccio qualche altro lavoretto, come andare a stirare per qualche ora. Se non mangio il gelato e non spendo soldi per altre cosette, come un pranzo fuori alla domenica o la visita sul tetto del Duomo, riesco a mettere da parte quasi tutto lo stipendio.

La prima volta che sono venuta in Italia, sono partita dall’Ucraina perché, dopo che mi ero sposata, servivano i soldi per finire di ristrutturare la casa. Da noi la figlia minore, quando si sposa, resta nella casa con i genitori per prendersene cura quando saranno vecchi. Però la nostra casa era troppo piccola, così abbiamo dovuto creare lo spazio per me e per mio marito.

In Ucraina avevo un lavoro, ero infermiera nell’ospedale del mio paese. Un ospedale piccolo che poi hanno chiuso e dove è rimasto solo l’ambulatorio. Io lavoravo proprio in ambulatorio, ma guadagnavo poco: l’equivalente di 100 euro al mese, che non bastavano per la mia famiglia. Mio marito non ha un lavoro fisso, lavora saltuariamente. Ora che vivo e lavoro in Italia, resto in contatto con i miei per telefono. Rispetto all’inizio, adesso è un po’ più bello: ci sono Skype e Wathsapp, anche se non sempre la linea tiene. Prima si doveva andare a telefonare alla cabina con cinque euro. Ma anche lì, a volte si faticava a prendere la linea e poi dovevi fare una coda per aspettare il tuo turno. Con Whatsapp è più bello e più semplice e quando riesci a fare una videochiamata riesci anche a vederti.

Riesco a sentirli spesso, ma la mancanza è sempre forte. Poi penso che quando mio figlio ha qualcosa che non va non me lo dice. E in ogni caso non son lì con lui. Questa per me è una grossa sofferenza. Mio marito non è contento che io sia qui, ma non mi fa tanti problemi perché ogni tanto torno e lo chiamo tutti i giorni. Sa che lo faccio per il bene della famiglia e che faccio la brava. È a mio figlio che manco tanto! Continua a chiedermi quando torno a casa. È lui che più di tutti mi mostra tutta la fatica per il distacco.

Quando parlo di questo con le mie colleghe e amiche scopro che è così per tutte. Fino a quando sarà così, mi chiedo? Esistono progetti per l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea. Ma per noi cambierà qualcosa?

 

La domanda finale di Veronika mi porta a fare due riflessioni conclusive che rimetto a voi lettori. Se con l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione cambiasse davvero qualcosa – ipotesi poco verosimile – che ne sarebbe dei nostri anziani? Il nostro sistema di cura si è ormai accomodato su questa posizione: delega alle famiglie e quindi alle badanti, prevedendo quando possibile un sussidio economico a copertura parziale della spesa.

E poi penso alla contraddizione che la presenza in famiglia di una badante implica: scegliere di lasciare invecchiare in casa i propri genitori anziani implica la rottura di altri legami familiari, quelli tra le badanti e i loro cari. Rotture o lunghe separazioni che creano ferite interiori profonde.

Veronika mi sembra serena e in grado di gestire gli effetti di queste contraddizioni, anche se la sofferenza di suo figlio non ha prezzo. In alcuni casi, invece, queste ferite diventano davvero laceranti, sia per le madri lontane che per i figli lasciati “indietro”, i cosiddetti orfani bianchi.

La riflessione richiederebbe altro tempo e approfondimenti. Questo post vuole essere soprattutto uno spunto a riflettere. Chiudo questo racconto rimandandovi alla lettura di un articolo di Luciano Trapanese sul Male nero delle badanti, pubblicato su Ottopagine e ripreso dall’Associazione donne romene in Italia che prende spunto da un recente fatto di cronaca avvenuto a Frigento, in Campania.

Segnalo anche un libro interessante dell’antropologo Francesco Vietti, Il paese delle badanti.

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