Ancora evidenze scientifiche della correlazione tra inquinamento ambientale di un dato territorio e malattie e mortalità della popolazione che vive e lavora in quello stesso ambiente. Questa volta è stata la valutazione dell’impatto delle attività del Centro Olio Val d’Agri sulla salute delle popolazioni di Viggiano e Grumento, in Basilicata, a fornire ulteriori, illuminanti conclusioni sul punto.
Qualche giorno fa, Andrea Tundo, sul suo blog, ricordava la recente, cospicua produzione di studi epidemiologici che stanno fornendo un quadro sempre più preciso e attendibile delle conseguenze sull’ambiente e sulla salute pubblica di maxi impianti industriali presenti nel Mezzogiorno. L’autore si poneva, quindi, il problema del silenzio, per non dire della sostanziale atarassia, di media e classe politica di fronte a questo tipo di informazioni socio-ambientali di cui sono portatori questi studi. E’ così.
Ma c’è un altro soggetto istituzionale che risulta sovente, in casi come quelli in esame, altrettanto imperturbabile: quello in toga, l’istituzione di tutela per eccellenza. C’è un corto circuito nel rapporto tra queste evidenze e il naturale ruolo di tutela di beni giuridici fondamentali che il diritto penale deve svolgere in uno Stato di diritto. Quando esce uno studio come quello citato, dalla cittadinanza colpita da questi fenomeni di aggressione all’ambiente e alla salute – più che altro dai suoi settori più reattivi – si alza un’immediata, pressante invocazione di intervento della Magistratura.
Quest’ultima, però, troppo spesso, fa grande fatica (quando si pone seriamente la questione) a rispondere a quelle richieste di tutela, di giustizia che, se in alcune loro espressioni non mancano, a volte, di connotarsi per un approccio vagamente messianico verso pm e giudici, nel loro complesso sono difficilmente contestabili. Soprattutto in uno Stato in cui la Carta Costituzionale impone, da un lato, alla Repubblica l’obbligo di tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività; dall’altro, al Pubblico Ministero l’obbligo di esercitare l’azione penale.
Quella fatica è reale, se si considerano le difficoltà, specie di prova, che connotano i processi penali in materia di danni alla salute o all’ambiente.
Ma non può essere l’alibi per provare, da parte dei soggetti istituzionalmente preposti a questo, ossia le Procure della Repubblica competenti per territorio, a risolvere il problema semplicemente decidendo di ignorare macroscopiche e qualificatissime notizie di reato. Perché così dovrebbe essere considerata la divulgazione di studi come quello lucano: notizia di reato contro l’incolumità pubblica, se non anche, direttamente, contro la vita e l’incolumità individuale.
Non lo consente il nostro ordinamento costituzionale, per quanto accennato sopra; ma non lo giustifica neanche il nostro sistema penale.
Da ormai due anni e mezzo, è stato introdotto nel nostro codice penale il delitto di disastro ambientale, e si configura anche quando ci si trovi in presenza di una contaminazione ambientale non particolarmente devastante, dalla quale però derivi “l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo”. Per i fatti che non ricadono sotto la vigenza del nuovo ecoreato, rimane sempre applicabile la vecchia figura del disastro “innominato”, quello integrato da un “fatto diretto a cagionare un disastro, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità”.
La Cassazione ha ribadito, fino alla sentenza Eternit, che in quest’ultimo illecito “possono ricondursi non solo gli eventi disastrosi di grande immediatezza e percezione e che si verificano in un arco temporale ristretto, ma anche quegli eventi non immediatamente percepibili, che possono realizzarsi in un arco temporale anche molto lungo, purché idonei a compromettere in maniera imponente le caratteristiche di sicurezza, tutela della salute ed altri valori della persona e della collettività e consentono di affermare l’esistenza di un lesione dell’incolumità pubblica”. In pratica, i disastri ambientali.
In nessuno dei due casi, va precisato, è necessario provare l’esistenza di morti o malattie causate dall’esposizione a una o più fonti inquinanti: basta che queste ultime abbiano creato una compromissione ambientale che abbia, a sua volta, esposto a pericolo la pubblica incolumità. Certo, in vicende di lesioni della salute per via “ambientale”, i processi penali che ne derivano restano complicati e dagli esiti tutt’altro che scontati, come insegnano casi come quello della stessa Eternit.
Ma non pare, comunque, una buona ragione per dichiarare di fatto la morte presunta della tutela penale della salute pubblica e dell’ambiente, specie nella “società del rischio”.