Un colpo al cerchio, cioè Kim Jong-un, e uno alla botte, cioè Donald Trump: è il senso, neanche troppo nascosto, della decisione del Comitato di dare il Nobel per la Pace all’organizzazione per il bando alle armi nucleari (Ican), un’organizzazione non-profit fondata nel 2007 che raccoglie 406 sigle partner in 101 Paesi.
Nei giorni in cui la Corea del Nord incrina la sicurezza internazionale, testando ordigni all’idrogeno e missili intercontinentali capaci di trasportare ogive atomiche, e gli Usa rimettono in discussione l’accordo sul nucleare raggiunto con l’Iran quasi due anni or sono, i saggi di Oslo ricordano la fragilità del Pianeta e premiano chi cerca di proteggerlo.
Il premio – recita la motivazione – è stato assegnato alla Ican per “il suo ruolo nel fare luce sulle catastrofiche conseguenze di un qualsiasi utilizzo di armi atomiche e per i suoi sforzi innovativi per arrivare a un trattato che le proibisca”, sforzi finora contrastati da tutte le potenze nucleari, legittime o meno che siano.
Grande la soddisfazione del direttore dell’Ican Beatrice Fihn: il premio “è un messaggio agli Stati che hanno armi nucleari”, i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Usa, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina) e, inoltre, India, Pakistan, Corea del Nord, verosimilmente Israele, potenzialmente vari altri Paesi. La Fihn spiega: “Continuare a basare la sicurezza sulle armi atomiche è atteggiamento inaccettabile”.
La campagna internazionale per mettere al bando le armi nucleari nasce in Australia e si batte per fare entrare in vigore e rendere efficace il trattato anti-atomiche siglato all’Onu. Nata in Australia, l’Ican inizia a operare a Vienna, nel 2007, sulla scia del successo avuto dal movimento per la messa al bando delle mine anti-uomo (pure insignito del Nobel).
L’obiettivo è di mobilitare l’opinione pubblica perché spinga i propri governi ad avallare iniziative per impedire l’uso delle armi nucleari. La campagna rivendica il sostegno dato all’Assemblea generale dell’Onu per l’adozione di una risoluzione – dicembre 2016 – poi trasformato in Trattato – luglio 2017 – e per il lancio di negoziati su “uno strumento legale che impedisca l’uso delle atomiche”. Il Trattato ha già ottenuto decine di adesioni, ma mancano quelle delle potenze nucleari e, fra gli altri, dei Paesi Nato. Il Vaticano l’ha firmato il 20 settembre, con una certa enfasi.
Corea del Nord, Iran paiono minacce lontane dai nostri scenari. E, invece, un convegno recentemente svoltosi a Castinglioncello in Toscana ha ricordato che in Italia ci sono circa 60 ordigni atomici, nelle basi di Ghedi in provincia di Brescia e di Aviano in Friuli: bombe Usa – rilevano gli esperti – “vere, collaudate, micidiali, molto più potenti di quelle che distrussero Hiroshima” (e, detto per inciso, di quelle testate dalla Corea del Nord).
L’Italia non è l’unico Paese europeo che ospita un arsenale nucleare, a parte Francia e Gran Bretagna che fanno parte del ‘club’ (i loro ordigni sarebbero circa 500): ci sono atomiche Usa in Germania, Belgio, Olanda, Turchia, in tutto circa 150 ogive.
Eppure, il processo di disarmo nucleare, portato vigorosamente avanti nei decenni seguiti alla dissoluzione dell’Urss, s’è praticamente arrestato, mentre i nuovi rischi si moltiplicano a causa dei programmi nordcoreani, delle minacce terroristiche di ‘bomba sporca’, dell’indebolimento del Trattato di non Proliferazione nucleare. Il Nobel all’Ican non basterà a invertire la tendenza, ma fa da sveglia per Kim e Trump e da campanello d’allarme per tutti noi.