Il premio assegnato all’International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (Ican) arriva sulla scia degli esperimenti missilistici nord-coreani e dopo la guerra di parole e insulti tra Pyongyang e Washington. E nel momento in cui il presidente Usa sembra intenzionato a non ratificare l'accordo con l'Iran
Anche quest’anno, come quasi sempre nel passato, il Nobel per la pace è inestricabilmente legato all’attualità politica internazionale. Lo ammette in modo esplicito lo stesso comitato norvegese del premio, che motiva l’assegnazione all’International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (Ican) con l’intenzione di spronare “gli Stati a negoziare in modo serio sull’eliminazione di almeno 15mila armi nucleari nel mondo”. L’appello agli Stati sottintende ovviamente due questioni: quella del nucleare nord-coreano e quella iraniana, che l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti ha reso improvvisamente più urgenti e di difficile soluzione.
Il richiamo alla minaccia nucleare nord-coreana, e alla possibile risposta statunitense, è esplicito nella motivazione del premio. Il Nobel arriva infatti sulla scia degli esperimenti missilistici nord-coreani e dopo la guerra di parole e insulti tra Trump e Kim Jong-un. Proprio Trump, nel corso del suo discorso all’Onu, ha minacciato di “distruggere completamente la Corea del Nord”. Il presidente nord-coreano gli ha risposto dandogli del “pazzo”. Fonti dei servizi di intelligence Usa, nelle scorse settimane, hanno poi confermato che Pyongyang ha prodotto il primo ordigno nucleare miniaturizzato, in grado di essere contenuto in un missile intercontinentale.
Ciò non significa che la Corea del Nord abbia già la possibilità di far scattare un vero e proprio attacco nucleare. Ma la cosa rende di sicuro più complicata la questione e mostra che le opzioni sinora sperimentate – dalle minacce aperte di Trump all’adozione di nuove sanzioni contro Pyongyang – non hanno prodotto effetti positivi. Il comitato del Nobel per la Pace registra questa situazione, di nuove minacce nucleari che si aggiungono alle antiche, quando scrive che “viviamo in un mondo in cui il rischio che le armi nucleari vengano usate è più grande rispetto al passato. Alcuni Stati stanno modernizzando i loro arsenali nucleari, e c’è un pericolo reale che più Paesi cercheranno di dotarsi di ordigni nucleari, come esemplificato dalla Corea del Nord”.
C’è poi ovviamente, aperta, la questione iraniana. Il Nobel a Ican arriva nelle stesse ore in cui Donald Trump sembra deciso a non “certificare” l’accordo sul nucleare iraniano. Il presidente Usa sceglie cioè di non denunciare il trattato negoziato ai tempi dell’amministrazione Obama – cosa che irriterebbe non poco gli alleati europei, che continuano a sostenere che l’accordo “funziona e non può essere rinegoziato”. Ma Trump decide di non controfirmare l’atto, come deve fare entro il 15 ottobre, inviando il trattato al Congresso perché questo decida il da farsi. Deputati e senatori avranno a quel punto due opzioni: approvare nuove sanzioni contro Teheran, cosa che farebbe automaticamente affondare l’accordo; oppure soltanto minacciare nuove sanzioni, per ottenere concessioni dall’Iran su uno spettro più largo di questioni: dai missili balistici all’appoggio a gruppi militanti come Hezbollah e Hamas sino all’intervento nella guerra civile siriano a fianco del presidente Assad.
Sembra essere questa, al momento, la via più probabile. La decisione di non certificare l’accordo con Teheran permetterebbe tra l’altro a Trump di rivendicare le promesse fatte ai suoi elettori in campagna elettorale, quando l’accordo sul nucleare iraniano venne bollato come “imbarazzante” e una “sconfitta per l’America”. Certo si aprirebbe un nuovo capitolo di scontri e polemiche con gli alleati. Ma in questo momento il presidente americano, più che all’esterno del Paese, guarda all’interno, e la politica estera è diventata un modo per dare vigore a un’azione di governo che pare, su base nazionale, totalmente bloccata. Fare la faccia cattiva di fronte a dittatori come Kim Jong-un, denunciare l’accordo con il vecchio nemico iraniano – che un predecessore di Trump, George W. Bush, aveva collocato tra i Paesi dell’Asse del Male – può servire a Trump per rilanciare la sua al momento magrissima agenda. La cosa acquista ancora più valore perché, in campagna elettorale, proprio Trump disse che, da presidente, avrebbe rilanciato il programma nucleare Usa. Di fronte alla crisi nord-coreana e iraniana, il presidente può dire di aver rispettato le promesse.
C’è ancora, per finire e per dare il senso dell’attualità del Nobel a Ican, un dato. Il pericolo di una guerra nucleare non è mai stato così forte dal 1953. Lo dice il Bulletin of Atomic Scientists, che spiega che il Doomsday Clock, l’Orologio dell’Apocalisse, si trova a soli due minuti e mezzo dalla mezzanotte. Il Doomsday Clock è l’orologio simbolico che dal 1947 misura il pericolo di un’ipotetica fine del mondo a opera di una guerra nucleare. L’orologio si fermò a due minuti dalla mezzanotte nel 1953, quando gli Stati Uniti, seguiti dall’Unione Sovietica, stavano testando i loro ordigni termonucleari. Oggi l’Orologio dell’Apocalisse prende in considerazione altri tipi di disastri, come per esempio i cambiamenti climatici. Ma è proprio la corsa al riarmo nucleare, e le minacce di una guerra che ci si lancia tra Washington e Pyongyang, a convincere gli scienziati atomici che l’Apocalisse possa essere sempre più vicina.