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Addio a Giorgio Pressburger, l’intellettuale arrivato in Italia da profugo

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Di Giorgio Pressburger conservo due dei suoi amati libri in miniatura che mi aveva rivelato custodire in numerose scatole da scarpe. Ho ricevuto quel prezioso dono al termine di un’intervista a Trieste. Ogni incontro con questo scrittore era per me una scoperta. Ogni volta mi sentivo piccola rispetto alla sua cultura, alla sua raffinata capacità di narrare la realtà quotidiana in modo colto e sempre con una punta di saggia ironia.

Un’ironia che bisognava saper cogliere, quella di un intellettuale scampato alla guerra e alla deportazione. Con Giorgio Pressburger, l’appuntamento era in uno dei caffè che si affacciano sul lungomare di Trieste. Più o meno lo stesso tavolo, più o meno la stessa bevanda. Lo scrittore, nato nel 1937 nell’ottavo distretto di Buda­pest, da dove era fuggito a causa dell’aggressione sovie­tica e nell’autunno del 1956, era arrivato in Ita­lia da profugo.

In una delle nostre interviste, ricordo che il professore venne colpito dal mio soprabito di colore rosso, forse perché indossava degli occhiali scuri a causa di un piccolo intervento agli occhi. Si spostava con i mezzi pubblici e i nostri appuntamenti, sempre puntuali, avvenivano in base alle corse degli autobus. In occasione dei cento anni dal primo conflitto mondiale ebbi occasione di raccogliere le sue riflessioni. Era stata una lunga conversazione, ma due passaggi ritengo siano considerazione che vale la pena rileggere:

Professor Pressburger, cosa rimane nella memoria del primo conflitto mondiale?
Ritengo che la coscienza del passato nelle generazioni di oggi, stia perdendo importanza. La velocità con cui la scienza e il sapere, in generale, progrediscono, l’offerta sempre più vertiginosa del mercato e del consumo hanno per effetto la perdita di vista tutto ciò che non è presente. Esiste soltanto la modernità e niente altro. Noi, figli di genitori che ancora hanno combattuto nella prima guerra mondiale, abbiamo figli e nipoti che di quelle cose sanno ben poco. Cinquanta, sessantenni che sanno magari vagamente, chi era Clemenceau, Francesco Giuseppe, Churchill, che cosa fosse l’attentato di Sarajevo.

Esiste un rapporto tra contemporaneità e storia?
La parola “storia” in molti Paesi del mondo è una pura astrazione che designa qualcosa che non esiste. Oggi si può praticare con mezzi nuovi, meno contestabili o del tutto distorti dalla politica. Il mondo oggi rifiuta la storia, e nello stesso tempo fa di questa un emblema, un sorta di mito. Guardiamo, per esempio, su che cosa si basa l’ideologia del partito politico nostrano chiamato Lega nord. Sulla commemorazione di personaggi del Medioevo: la battaglia di Legnano, Federico Barbarossa, Alberto da Giussano compaiono come vessilli delle rivendicazioni di oggi. In tutta l’Europa, queste rivendicazioni assumono connotati anche più minacciosi. Molto di ciò che ribolle ancora nel ventre dell’Europa è frutto delle migrazioni, delle separazioni, delle indignazioni del primo dopoguerra. Esistono poi situazioni un po’ sopite, delle contese etniche tra Ungheria e Romania. Tra Slovacchia e Ungheria, tra Albania e Serbia, nel Kossovo. Tra fiamminghi e francesi, spagnoli e catalani, inglesi e irlandesi.

e.reguitti@ilfattoquotidiano.it

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