Molte furono le speranze suscitate, quasi vent’anni fa, dallo svolgimento, a Roma, della Conferenza internazionale che approvò lo Statuto della Corte penale internazionale. Ambizioso e necessario il progetto, volto a dotare la comunità internazionale di uno strumento giudiziario in grado di perseguire gli autori di gravi crimini e in particolare quelli di guerra, quelli contro l’umanità e quello di genocidio, mentre si decideva di rinviare a futuri accordi la repressione del crimine forse più grave, quello di aggressione, la quale, secondo il pubblico ministero statunitense al processo di Norimberga, costituisce la cornice e l’occasione per il compimento degli altri crimini menzionati.
Pur nascendo mutilata dell’adesione di Stati di importanza fondamentale quali gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, l’India e la Turchia, la Corte veniva vista da molti come una possibilità senza precedenti per combattere l’impunità dei potenti, che da sempre si macchiano di crimini orrendi pur di mantenere la loro posizione dominante. Al tempo stesso l’approccio universalistico perseguito con il Trattato di Roma sembrava permettere il superamento dei vari tribunali penali ad hoc creati dal Consiglio di Sicurezza per singole situazioni (ex Jugoslavia, Ruanda, ecc.), battendo in tal modo in radice possibili atteggiamenti discriminatori o strumentalizzazioni della giustizia penale a fini politici. Speranze purtroppo successivamente andate in buona parte deluse.
Gli autori scrivono, in particolare, che “la nuova giustizia penale globale ha finito per essere uno strumento nelle mani dei governi più potenti per la resa dei conti contro i loro nemici”. Tale giudizio pare grossomodo condivisibile, anche se un po’ troppo generico. Venendo nello specifico alla Corte penale internazionale, va detto ad esempio che gli autori non si soffermano a sufficienza su taluni casi molto importanti per capire la disaffezione di buona parte della comunità internazionale nei confronti di tale organo giudiziario, e cioè il rifiuto della Corte di processare Tony Blair per i crimini compiuti in Iraq e le ripetute reticenze ad occuparsi del caso palestinese. Non manca inoltre, data forse la mancanza di basi giuridiche nei generosi autori, qualche vero e proprio simpatico svarione, come quello contenuto nella prefazione, dalla quale apprendiamo che la Corte europea dei diritti umani è stata creata per indagare e denunciare gli abusi commessi in ciascuna parte del mondo.
Nonostante le imprecisioni, il libro si legge con interesse e fornisce materiali utili alla riflessione su di un tema che occupa da tempo sia i giuristi che i politologi e che la cui soluzione appare necessaria per dare finalmente soddisfazione ad inquietudini ed ansie di giustizia generalizzate, superando gli ostacoli contrapposti della strumentalizzazione politica e del giustificazionismo nei confronti di crimini ovviamente inescusabili e che dovrebbero trovare sempre e comunque sanzione e punizione adeguata. In conclusione, stante il fallimento denunciato giustamente dagli autori, occorre ritenere che l’unica vera giustizia praticabile con successo è quella amministrata in loco dall’ordinamento territorialmente competente, senza tuttavia sottovalutare il ruolo di stimolo e complemento che possono svolgere istanze internazionali o magistrature di altri Stati che siano chiamate ad intervenire come è accaduto a quella italiana in relazione ai gravi crimini dell’Operazione Condor e più in generale a quelli delle dittature latinoamericane nel corso degli anni Settanta ed Ottanta.