“Pur sapendo che c’era il rischio di naufragio, si è deciso deliberatamente di non intervenire”. E’ questa convinzione che spinge Mohanad Jammo e i suoi legali ad opporsi all’archiviazione proposta dalla Procura di Roma per il processo per il naufragio dell’11 ottobre 2013 a sessanta miglia a sud di Lampedusa. Primario dell’unità di terapia intensiva e anestesia dell’Ospedale di Aleppo in Siria, Jammo stava attraversando il Mediterraneo con sua moglie e i loro tre figli. I più piccoli, di sei anni e di nove mesi, moriranno in quella tragedia. 400 le persone a bordo, 268 le vittime di cui 60 bambini. Il procedimento vede imputati due operatori della Centrale Operativa della Guardia Costiera di Roma, oltre all’allora comandante della nave “Libra” della Marina Militare e all’allora comandante della squadra navale della Marina. Il capo d’accusa: “aver cagionato la morte di 300 persone a largo di Lampedusa”, è scritto nell’ordinanza del Gip del Tribunale di Agrigento che, il 12 maggio scorso, ha respinto una prima richiesta di archiviazione. Poi, per competenza, le carte sono state inoltrate al Tribunale di Roma. Agli atti le testimonianze dei superstiti, le registrazioni e il materiale raccolto grazie all’inchiesta giornalistica di Fabrizio Gatti per l’Espresso. Elementi che in caso di archiviazione – il Tribunale di Roma si pronuncerà il prossimo 27 ottobre – non avranno modo di rientrare nella verità processuale sulla vicenda. Una verità che rischia di non dare alcuna risposta ai superstiti e alla loro più ferma convinzione: “Quelle morti sono dovute ai ritardi nei soccorsi”. E’ quanto riporta il legale del dottor Jammo, Alessandra Ballerini, che para di “Almeno cinque ore di rimpallo tra Italia e Malta, mentre la nave affondava”.
Dopo tre giorni in un centro di detenzione in Libia a Zuwara, il 10 ottobre alle 22 450 profughi siriani vengono imbarcati su un peschereccio verso l’Italia. Secondo le testimonianze dei superstiti, vengono inseguiti per tutta la notte da una motovedetta militare libica che bersaglia il barcone con raffiche di mitra ferendo diversi passeggeri e forando lo scafo. Alle luci dell’alba si rendono conto che imbarcano acqua. Stando ai testimoni, le prime chiamate ai soccorsi partono alle 11, ma le prime registrazioni dove si può ascoltare nitidamente la richiesta di soccorso del dottor Jammo alla sala operativa della Guardia Costiera italiana risalgono alle ore 12.26. Alle 12.39 i militari italiani sono al corrente dello stato di pericolo dell’imbarcazione: alla deriva con diversi feriti e destinata ad affondare nel punto in cui si trova, cioè a un’ora e mezza di navigazione da Lampedusa, a tre ore da Malta. Ma i militari italiani sanno qualcosa che a bordo del peschereccio nessuno immagina: a poco più di mezz’ora di navigazione dalla loro posizione c’è una Nave della Marina Militare Italiana, la “Libra”, il cui equipaggio ha già salvato migliaia di vite durante l’operazione Mare Nostrum nel Mediterraneo. Ma la Libra non si muoverà, non ancora. Chi si trova nelle posizioni di comando decide di rimbalzare a Malta la responsabilità dei soccorsi: “You have to call Malta” (Deve chiamare Malta), si sente dire il dottor Jammo. Ma c’è di più. Pur di lasciare ai maltesi le operazioni di soccorso, gli italiani avrebbero esplicitamente chiesto al comandante della Nave Libra, Catia Pellegrino, di allontanarsi per “non farsi trovare tra i coglioni” all’arrivo dei maltesi “che sennò prendono e tornano indietro”, come si legge nella trascrizione dei messaggi tra Roma e la nave della Marina italiana.