Un movimento spontaneo – “Hablamos?” (Parliamo?) – che sta rimbalzando attraverso le reti sociali ha dato appuntamento a tutti i cittadini spagnoli oggi, sabato, a mezzogiorno, nelle principali piazze che un lustro fa ospitarono la mobilitazione degli Indignados. Per manifestare contro la follia dell’odierna non-politica iberica sventolando bandiere bianche. Forse il primo segnale che un barlume dell’intelligenza politica di un grande Paese ha ripreso a funzionare. Sicché Steven Forte si domandava su MicroMega “cosa diranno Rajoy e Puigdemont se sabato ci saranno centinaia di migliaia di spagnoli che chiedono il dialogo occupando le piazze di mezza Spagna?”. Intanto, in un incontro a Saragozza promosso da Pablo Iglesias di Podemos e dalla sindaco di Barcellona Ada Colau, le organizzazioni che si oppongono alle derive da regime nel governo di Madrid avevano raggiunto un preciso punto di incontro.
#Parlem #Hablamos ??? #parlemhablemos ?
quando i governi si mostrano inadeguati… il popolo pare esprimere #buonsenso ?#Spagna #Catalogna pic.twitter.com/gR6yvRh3sa— Il vino con Adri (@ilvinoconadri) 7 ottobre 2017
Dopo l’emozione e il turbamento del voto referendario nella domenica catalana e della brutale repressione poliziesca, il quadro si va facendo più chiaro e intellegibile. Dal non-senso della discussione sui crismi legali della consultazione, una volta accertato trattarsi di una civile manifestazione di massa dal chiaro e non aggirabile valore simbolico, alla presa d’atto che siamo in presenza di una grave crisi della statualità spagnola, che mette in discussione l’assetto scaturito nel 1978 con l’uscita democratica dal Franchismo (il crescendo di scandali, spia della perdita di coordinate etiche nell’establishment; l’arresto dell’alternanza bipartitica tra socialisti e popolari su cui si era basata la governabilità).
In questo quadro di crescente involuzione esplode la questione catalana. Con tutte le caratteristiche proprie delle lotte identitarie, tipiche di questa fase storica post-industriale: la domanda di riconoscimento della propria specificità, culturale prima ancora che etnica. Perché la parlata di questo pezzo d’Europa (un idioma neolatino che ibrida le lingue degli iberi giunti dal Nord Africa e dei celti scesi dai Pirenei) è nettamente diversa dal castigliano; la sua storia fondativa si lega alle campagne dei Franchi che, dopo aver respinto le orde saracene a Poitiers nel 732, consolidarono la marca di frontiera oltre l’Ebro sotto la guida del conte carolingio Guifré el Pelòs; ha maturato un tenace e incrollabile spirito di indipendenza, da “popolo libero”, quando i suoi contadini si sottrassero all’invasione araba e alla sottomissione feudale gotica riparandosi nei muniti contrafforti pirenaici della Catalunya Vella. La repubblicanità che ritorna costantemente nelle vicende di questo popolo.
Da qui, uno spirito di appartenenza radicato nel sentire collettivo, inasprito dal ricordo di essere stati accorpati al regno di Spagna dall’invasione dell’esercito borbonico del 1716. E con un tale grumo di convinzioni e passioni non si scherza a cuor leggero. Farlo è stato un errore gravissimo. Non meno del tentare di superarlo alzando la posta: Mariano Rajoy, nascondendo la precarietà della sua leadership dietro al muso duro dei Guardia (In)Civil incappucciati di nero e facendo levitare la minoranza indipendentista in una moltitudine che rischia di farsi maggioranza; il governatore nazionalista catalano Carles Puigdemont, cavalcando un separatismo illogico e autolesionista.
Con sullo sfondo i mille, miserrimi, giochi delle tre carte all’ombra della Moncloa: la segreteria del tentenna socialista Pedro Sanchez insidiata dalla compagna di partito Susana Diaz, il pretesco Rajoy a far tintinnare le manette da vero duro per non lasciarsi infilare dall’amico (?) redivivo José Maria Aznar. Un teatro dell’assurdo, in cui gli attori si aggirano come sonnambuli senza la minima idea di cosa fare. Quando l’unica mossa in questa sagra delle ottusità e delle testardaggini sarebbe parlarsi. Come sollecitano i movimentisti di Hablamos, la Chiesa spagnola, i sindacati e la sindaca di Barcellona, Ada Colau. Persino i giocatori del Barça. Come dovrebbe pretendere l’Unione europea, se avesse conservato un minimo di consapevolezza della propria missione. Prima che sia troppo tardi.