"I processi di secondo grado diminuiranno del 10%", ha assicurato il ministro Orlando. "Il miglior filtro per i ricorsi inutili e pretestuosi"; dicono i tecnici del ministero. Ma il governo ha deciso di concedere la possibilità delll’appello incidentale al solo imputato: secondo decreti legislativi sull'impugnazione del 2 ottobre scorso, infatti, il pm non potrà più utilizzare tale strumento. "La percentuale degli appelli dei condannati arriverà al 100% ", dice il procuratore aggiunto Ardita
Dovrebbe accorciare i tempi dei procedimenti. Dovrebbe regolamentare le modalità dei ricorsi. Dovrebbe tagliare di almeno il 10% i processi d’appello. Tutti obiettivi da mettere in fila ma al condizionale. Sì, perché la nuova riforma del processo penale del ministro Andrea Orlando nasconde più di un interrogativo. Un nodo sfuggito a tecnici e giuristi che sta emergendo soltanto ora che il governo ha varato la fase attuativa della riforma. E che alcuni magistrati definiscono come “un favore agli imputati“.
In più invece di far diminuire i processi avrà l’effetto opposto. “Questa legge, in pratica, farà arrivare tendenzialmente al 100% la percentuale di appelli dei condannati, i quali d’ora in poi non correranno più alcun rischio e dunque alla fine incrementerà il contenzioso”, dice Sebastiano Ardita, procuratore aggiunto di Messina e fondatore – insieme a Piercammillo Davigo – di Autonomia e Indipendenza, corrente trasversale della magistrati. L’obiettivo di Ardita è il decreto legislativo partorito da Palazzo Chigi lunedì 2 ottobre, che i tecnici del ministero della Giustizia definiscono come “il miglior filtro per gli appelli inutili e pretestuosi“.
A poco più di tre mesi dall’approvazione da parte di Camera e Senato, infatti, il consiglio dei ministri ha dato il via libera ai primi provvedimenti di attuazione della legge delega contenuta nella ddl Penale. Approvando la riforma, infatti, il parlamento aveva delegato il governo a riformare da zero una serie di settori del codice: si tratta delle deleghe in materia di ordinamento penitenziario e di quelle tanto contestate sulle intercettazioni. Ma non solo. Perché tra gli ambiti in cui l’esecutivo è chiamato ad esprimersi c’è, infatti, anche quello relativo all’impugnazione dei processi. Ed è proprio a questo che si riferisce il decreto legislativo voluto dal governo tre giorni fa.
Studiato da una apposita commissione ministeriale istituita dal ministro Orlando e presieduta da Domenico Carcano, il decreto sulle impugnazioni dovrebbe puntare a snellire i procedimenti sia in secondo grado che in Cassazione. L’obiettivo, in teoria, è avere processi che si concludono entro i 18 mesi di sospensione della prescrizione previsti per ciascuna fase di impugnazione. Il provvedimento quindi cancella la possibilità del pubblico ministero di fare appello contro le sentenze di condanna, cioè tutte quelle che riconoscono una pena per l’imputato. Escluse da questo divieto rimangono invece i pronunciamenti che modificano il titolo del reato o o escludono l’esistenza di aggravanti. Parallalemente anche lo stesso l’imputato non potrà fare appello contro le sentenze di proscioglimento pronunciate con le più ampie formule liberatorie: sono in pratica le assoluzioni emesse perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso. Una norma salutata con entusiasmo dal guardasigilli.
“Oggi nel penale il vero collo di bottiglia è il processo d’appello, che è garanzia preziosissima ma anche uno strumento di cui non si deve abusare. Noi riteniamo che adesso possano diminuire di circa il 10% gli appelli“, diceva Orlando presentando la riforma. “Vanno precisati meglio i motivi di appello e quando c’è una condanna – spiegava sempre il ministro – il pm non può ricorrere, se non per motivi di violazione di legge e quando ci si trova di fronte a una doppia condanna. L’imputato può sempre fare appello quando si tratti di una condanna, ma non in caso di assoluzione”. Tutto bene dunque? Non proprio.
Perché il decreto legislativo sulle impugnazioni riforma anche un altro passaggio fondamentale: quello dell’appello incidentale. Si tratta di un istituto che concede di appellare una sentenza entro un nuovo termine, quando una delle parti ha già fatto ricorso, anche se sono scaduti i limiti temporali in via principale. Un esempio? In un processo di primo grado il pm chiede una pena a dieci anni per l’imputato ma il giudice lo condanna “solo” a sette anni. L’imputato fa quindi ricorso, consapevole che in secondo grado il giudice non può aumentargli la pena. È quello il caso in cui la pubblica accusa ricorre all’appello incidentale integrando – come stabilito dal codice – il contraddittorio, e fornendo cioè una tesi alternativa rispetto a quella dell’imputato.
Solo che adesso il governo ha deciso di concedere la possibilità delll’appello incidentale al solo imputato: secondo decreti legislativi sull’impugnazione, infatti, il pm non potrà più utilizzare tale strumento. È per queste motivo che per alcune toghe la riforma Orlando avrà effetti completamente opposti rispetto a quelli denunciati dal guardasigilli. “L’eliminazione dell’appello incidentale del pubblico ministero non farà venire meno neanche una causa, poiché interviene su un giudizio già instaurato dall’imputato. Inoltre farà cadere anche l’ultimo deterrente che esiste per fare sì che chi ha avuto una condanna ingiustamente bassa appelli comunque la sentenza”, dice Ardita, che poi propone anche un’alternava valida all’alleggerimento dei processi. “L’unica soluzione per far diminuire le cause – spiega – sarebbe stata l’abolizione del divieto di reformatio in peius: cioè la possibilità che il giudice chiamato a pronunciarsi sull’appello del condannato possa, se lo ritiene, anche aumentare la pena”. Al contrario, invece, adesso è caduto l’ultimo deterrente per fare in modo che i condannati non impugnino. Un favore agli imputati, appunto.
Dal ministero, però, la pensano in maniera diversa. “Il precedente sistema cercava di scoraggiare gli appelli degli imputati con la prospettiva (per loro pericolosa) che il pubblico ministero potesse replicare con un appello incidentale (facendo in tal modo venir meno il divieto della reformatio in peius) e rendendo così possibile alla corte di Appello di aggravare la pena nel caso in cui l’appello dell’imputato non fosse stato accolto. Si confidava insomma sull’efficacia deterrente dell’eventuale appello del pubblico ministero in caso di appello dell’imputato”, ammettono da via Arenula. Perché allora cambiare? “Il nuovo sistema – spiegano sempre dal ministero – punta a selezionare gli appelli che meritano di essere presentati ed esaminati, perché l’obiettivo non può essere il contenimento puro e semplice delle impugnazioni, quanto l’eliminazione degli appelli pretestuosi, superficiali, che non rispondono a un reale bisogno di giustizia. In questa direzione, la legge ha irrobustito i requisiti di ammissibilità delle impugnazioni, compresi gli appelli. Questo è il miglior filtro per gli appelli inutili e pretestuosi. A ciò si aggiunga che viene sospeso, in caso di appello di una sentenza di condanna, il decorso della prescrizione: l’imputato, quindi, non ha convenienza ad appellare sperando nella prescrizione, perché oggi si determina una parentesi temporale che consente, con tempi adeguati, la trattazione dell’appello, senza che l’imputato possa sperare, per questa via, di allungare i tempi e lucrare infine la prescrizione”.
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