"Il giudice d’appello - scrivono gli ermellini - è giunto a un’ingiustificata semplificazione del proprio compito e, per conseguenza, si è arreso davanti alla difficoltà di accertare le responsabilità di coloro che, ricoprendo specifiche posizioni di garanzia, avevano posto in essere una serie di comportamenti giudicati gravemente negligenti"
Il 19 aprile scorso, a un soffio dalla prescrizione dei reati, la Cassazione aveva annullato la sentenza di assoluzione dei cinque medici dell’ospedale romano Pertini accusati dell’omicidio colposo di Stefano Cucchi. La suprema Corte aveva deciso il rinvio a una nuova corte d’Appello. Oggi gli ermellini scrivono che il percorso che aveva portato i giudici d’appello ad assolvere gli imputati si confronta “con l’accertata intempestività e inadeguatezza delle cure derivanti dal comportamento palesemente inattivo dei medici”, che pure era stato evidenziato dal giudice di primo grado e dai periti. “Era stato evidenziato – afferma la prima sezione penale della Cassazione nella sentenza n° 46432 – senza tra l’altro che sul punto le difese siano mai state in grado di dedurre argomenti di segno contrario, che dalla mancata diagnosi sono derivati in primis accertamenti e terapie inidonei“, ma questa considerazione è trascurata dall’appello: “Come se non fosse, in realtà, una delle principali condotte doverose non tenute dai sanitari, la cui efficacia causale doveva essere, invece, vagliata”.
In secondo luogo, la Cassazione, spiega come fosse emerso nel giudizio che il geometra romano, arrestato per droga e morto in ospedale il 22 ottobre 2009 dopo aver subito un pestaggio come ipotizza la procura di Roma da parte dei carabinieri, non era stato informato dei rischi che correva proseguendo con il suo rifiuto di cibo e acqua: un rifiuto “non consapevole e quindi non effettivo”. I medici, secondo la Cassazione, si erano “trincerati dietro un mero adempimento burocratico”, senza neppure coinvolgere la struttura gerarchica.
La Cassazione era già intervenuta annullando, nel dicembre 2015, la prima assoluzione dei medici, e chiedendo all’appello di pronunciarsi sulla particolare forma di reato, “omissivo improprio o commissivo mediante omissione”, di chi nella sua attività professionale viola i suoi doveri e non impedisce un evento lesivo. Ma anche la nuova pronuncia di assoluzione della corte d’Appello di Roma, di luglio 2016, secondo la Cassazione è viziata da “contraddittorietà e illogicità”. A cominciare dalla causa della morte, che la Cassazione aveva chiesto di individuare. “In sintesi la sentenza impugnata identifica la causa della morte nella sindrome da inanizione: Stefano Cucchi è morto di fame e di sete” ovvero per la privazione di acqua e cibo: una situazione autoinflitta che aveva aggravato il suo già compromesso quadro clinico (la rottura delle vertebre, la tossicodipendenza, la celiachia), escludendo la responsabilità dei medici.
Una spiegazione che, evidentemente, non soddisfa la Cassazione, che sottolinea come l’appello, “dopo aver aspramente stigmatizzato le numerose e gravi condotte dei sanitari”, abbia sottovalutato le conclusioni dei periti e “impiegato la propria scienza privata per discostarsi da esse”, senza procedere ad ulteriori approfondimenti tecnici su temi potevano essere “dubbi”. “Il giudice d’appello – scrivono gli ermellini – è giunto a un’ingiustificata semplificazione del proprio compito e, per conseguenza, si è arreso davanti alla difficoltà di accertare le responsabilità di coloro che, ricoprendo specifiche posizioni di garanzia, avevano posto in essere una serie di comportamenti giudicati gravemente negligenti”. “Per tale via è stato, paradossalmente, premiato il ritardo nella diagnosi e cura di Stefano Cucchi”: il giudizio controfattuale, spiega la Cassazione, “non ha tenuto conto di tutti i comportamenti negligenti” ma si è limitato, “erroneamente”, a vagliare se tali comportamenti potessero spiegare la morte di Stefano, senza invece valutare se “un comportamento doveroso fosse in grado di evitare l’evento”. “In questo caso – rimarca la Corte – non si tratta di porre in verifica una specifica condotta curativa caratterizzata da particolare difficoltà tecnica” o “diagnostica”, ma “semplicemente l’adempimento del generico dovere di anamnesi e ‘ascolto’ del paziente“. E “lo sguardo del giudice deve rivolgersi all’indietro verso qualsivoglia condotta omissiva antecedente, perché al contrario sarebbe premiato il medico neghittoso e distratto che trascuri il giuramento d’Ippocrate”.
La prima udienza del processo in cui sono imputati i carabinieri inizierà il 13 ottobre, ma probabilmente il giudizio slitterà perché, come evidenziato dalla parte civile, c’è un giudice incompatibile.