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Coming out day 2017, sette modi di dire ‘sono gay’

di Margherita Cavallaro

In virtù della creatività e originalità che contraddistingue la popolazione Lgbt+, oggi, giornata mondiale del coming out, vorrei parlare della fenomenologia del coming out. Perché perdere potenziali lettori con una parola come “fenomenologia”? Perché il coming out non è mai un’esperienza univoca e perché spesso non avviene nel modo in cui ce lo si aspetta.

Prima di tutto: sono tutti i coming out esperienze drammatiche e traumatiche? No. Per alcuni vedere un pene o una vagina è in sé l’esperienza traumatica e a quel punto il coming out viene naturale e non suscita per altro particolare sorpresa in nessuno. Giocando un po’ con gli stereotipi, abbiamo avuto tutti il compagno di scuola o il cugino che faceva l’hair stylist delle Barbie e faceva baciare due Ken mentre le altre bambole erano tutte a fare lo shampoo.

1. Coo: il coming out ovvio

Sfido chiunque a dirmi onestamente che alla frase “sono gay” del suddetto compagno di scuola o cugino abbia provato genuina sorpresa. Chiamerò questo tipo di coming out Coo: il Coming out ovvio. 

2. Coi: il coming out imbarazzante. 

Esiste poi il Coi: Coming out imbarazzante. È questo il coming out che può realizzarsi per chi non ha mai avuto atteggiamenti generalmente classificati come “omosessuali” dai non omosessuali. La bomba viene lanciata e l’imbarazzo colpisce non per il nervosismo aspettando la risposta, ma per la stupidità della risposta stessa: “Ma non è che adesso ti innamori di me?”. Come se tu fossi diventato gay in quel momento e non lo fossi stato prima. Varianti si trovano nei sempreverdi “È solo una fase” e “Sei solo confuso/a“.