Uno dei punti di frizione che hanno fatto deragliare il progetto di riforma è quello delle nomine dei commissari. Spulciando l’elenco sul sito del Mise si nota che gli stessi nomi compaiono tre, quattro volte. La commercialista Stefania Chiaruttini, per esempio, dal 2002 è stata nelle terne che hanno amministrato Itea, Tecnosistemi, Giacomelli e la società di call center Agile. Quattro anche gli incarichi collezionati da Lucio Francario: Cirio dopo il crac del 2003, Federici Stirling, Istituto di vigilanza dell’urbe, Mabo Prefabbricati. Stefano Ambrosini ha all’attivo l’Azienda servizi ambiente, la carrozzeria Bertone, Infocontact e l’Istituto di vigilanza partenopea combattenti e reduci. Francesco Fimmanò è stato commissario di Società ittica europea, Formenti Seleco e Fashion District Group, la ex fabbrica tessile Bemberg chiusa nel 2009. Tre poltrone da commissario anche per Vincenzo Sanasi D’Arpe (Cablelettra, Maflow e Idi) e Daniele Discepolo (Livingston, Meraklon e Valtur). Le remunerazioni, fino all’anno scorso, venivano fissate sulla base di un decreto del 2012 sui curatori fallimentari, che le commisurava all’attivo: ergo più grande è il gruppo, maggiore è il compenso. Il ministero poteva poi incrementare la cifra in base a “criteri di economicità, efficacia ed efficienza della procedura”. Così, per esempio, Enrico Bondi e il suo staff arrivarono a incassare per il risanamento di Parmalat 32 milioni di euro.

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