Pio è un quattordicenne rom calabrese che vive alla giornata, fuma, beve, ruba, va a prostitute. Non sa cosa sia la gratitudine e, quando messo alla prova, finisce per tradire il suo amico africano di Rosarno pur di restare fedele alla sua comunità. Suo nonno gli ha insegnato l’avversità contro i non rom ripetendogli: “Siamo noi contro il mondo”. La quotidianità borderline di Pio è tutta racchiusa nel piccolo ghetto rom della Ciambra, alla periferia di Gioia Tauro, un agglomerato di case popolari cadenti e prive dei servizi essenziali dove dagli inizi degli anni Novanta vivono 260 rom italiani.
Sono stato il mese scorso a Gioia Tauro per visitare la Ciambra e non ho incontrato Pio. Per imbattersi in lui non devi scendere in Calabria. E’ sufficiente sedersi su una poltrona e vedere il film di Jonas Carpignano candidato per l’Italia alla selezione del premio Oscar per il miglior film in lingua non inglese. A Ciambra è stato anche presentato con discreto successo all’interno della Quinzaine des Réalizateur dell’ultimo Festival di Cannes. Un film che dietro uno pseudo realismo rischia di confermare stereotipi con una storia che non concede margini ad altre narrazioni. “Un film razzista – ha commentato Tommaso Vitale dell’Università parigina di Sciences Po – perché seleziona una storia particolare (l’integrazione di una famiglia rom nei traffici della ‘ngrangheta di Gioia Tauro) e non lascia spazio ad alcuna altra storia. Si vede una storia e si pensa sia la storia di tutti i rom, e questo proprio non è vero”.
“Non credo di aver parlato male della comunità rom – si è difeso il regista Jonas Carpignano. La sfida che mi sono posto è mostrare quello che sono realmente e amarli, nonostante tutto, vedendo che sono persone come noi, anche se rubano”. E ancora “Sono ladri e sono felici di far mostra delle loro abilità. Loro credono di non fare nulla di male, è la loro vita, come un lavoro”.
Al di là di tutto, “A Ciambra” è un film del quale non sentivamo alcun bisogno. Di luoghi comuni e pregiudizi siamo già pieni e non c’era necessità del film di Carpignano per racchiuderli nella storia di Pio. Il regista italo-americano presenta una realtà artefatta perché la storia della piccola comunità rom di Gioia Tauro è un’altra. E’ una storia di povertà dignitosa colpita da emarginazione e segregazione. Una narrazione intensa e bellissima è quella di Saverio Caracciolo, il videomaker che mi ha accompagnato a incontrare alcune famiglie del quartiere. Lui qui ci ha vissuto una settimana e con i parenti della famiglia di Pio ha stretto amicizia. Con loro ha curato la produzione di un reportage dove ci sono “altri” racconti che, messi insieme, parlano di abbandono, di dolore, di voglia di riscatto da parte di cittadini “italianissimi” traditi solo da un nome e da un’origine.
“Veniamo chiamati zingari perché una volta, i nonni dei nonni, non avevano un luogo dove fermarsi. Arrivavano fino a Catanzaro, Vibo, Nicotera. Si spostavano ogni quattro, cinque giorni. Poi siamo stati nelle baracche per 50 anni. Quindi ci hanno costruito queste palazzine. Ma non si può abitare in questo modo. Vorremmo un bel futuro per i nostri figli, ma non possiamo darglielo. Dobbiamo vivere tutti quanti come esseri umani, non come animali. Neanche gli animali vivono così”. Un signore anziano non usa le parole dettate da Carpignano al nonno di Pio. “Noi resistiamo – afferma con fierezza e profondo dolore – ma i bambini qui è come se morissero“. Il racconto di Caracciolo non termina, come il film di Carpignano, con il tradimento infame di Pio, ma con il pianto di un giovane padre, disperato per non riuscire a dare a suo figlio un futuro diverso.
Sono stato a la Ciambra perché sopra questo spicchio di terra, circondato da rifiuti, si sta in realtà consumando un’enorme speculazione. Prima quella mediatica, amplificata e portata fino a Los Angeles dal film di Carpignano, e poi quella edilizia, sostenuta da un progetto ministeriale che prevede su quest’angolo di terra tossica un investimento di 8,5 milioni di euro per rimettere a nuovo il ghetto: 130mila euro a famiglia.
E’ una storia scontata, che abbiamo visto ripetersi molte volte: crei il mostro e poi per difenderti da lui devi realizzare interventi di messa in sicurezza. E il denaro scorre, a fiume, nelle sale cinematografiche, coperto dallo scroscio degli applausi e negli uffici della pubblica amministrazione. A pagarla sono sempre loro, gli indifendibili “zingari”, gli abitanti del girone dei poveri di Gioia Tauro.