In fondo a viale Certosa, nella profonda periferia nord ovest di Milano, al posto delle tute blu ci sono la cravatta di Francesco e il trench di Claudia, impiegati nel settore commerciale e nell’ufficio acquisti dell’Ilva. Dopo le 24 ore di sciopero degli operai, anche loro sono scesi in strada contro il piano di Am Investco, acquirente designata del gruppo che fu della famiglia Riva. Perché da Taranto al “quarta”, come chiamano da queste parti lo storico quartier generale dell’Ilva, la sorte che potrebbe toccare ai lavoratori è la stessa: Jobs Act, azzeramento degli scatti di anzianità e del contratto integrativo con un taglio previsto in busta paga che oscilla tra il 20 e il 30 per cento.

Così per la prima volta nella storia della più grande industria siderurgica italiana a incrociare le braccia per due ore sono stati i colletti bianchi. Su 165 amministrativi e quadri “oltre il 60 per cento ha aderito allo sciopero”, afferma Mirco Rota, segretario generale della Fiom-Cgil. Numeri non molto difformi dal 57 per cento comunicato dall’azienda e “importanti”, secondo il sindacato, visto che nessun impiegato aveva mai scioperato nella storia dell’Ilva.  “Siamo tutti preoccupati per il nostro futuro, noi come gli operai”, dicono. Eppure rispetto ai lavoratori impegnati negli stabilimenti, negli uffici amministrativi c’è un pensiero ricorrente: “Si stava meglio quando c’era l’ingegnere”. Cioè Emilio, il capostipite con Adriano della famiglia Riva, i rottamat come li chiamavano a Milano perché, prima di diventare i padroni dell’acciaio, recuperavano rottami ferrosi.

Una nostalgia serpeggiante in molti dipendenti milanesi. Nonostante i veleni di Taranto e l’accusa di bancarotta per la quale Adriano Riva ha patteggiato due anni e sei mesi lo scorso maggio:  “Il peggio è comunque venuto dopo – ripetono – Prima i sequestri della magistratura, poi i commissari e gli ‘schiaffi’ presi dai clienti negli ultimi quattro anni. Ora con i nuovi proprietari e i tagli prospettati”. Più che agli esuberi – che qui saranno appena 5 – il pensiero è rivolto a quel costo del lavoro che gli indiani di Arcelor Mittal e il Gruppo Marcegaglia vorrebbero tagliare.

“Ho due figli, di 10 e 5 anni. Rischio di dover riorganizzare la mia vita sotto il profilo economico e viviamo nel terrore che Am Investco decida di trasferire i nostri uffici altrove. Neanche su questo abbiamo garanzie, capisce?”, ripete Claudia, 40 anni. “Sotto questo aspetto siamo più vulnerabili degli operai: i siti produttivi non si smontano e rimontano da un’altra parte. Se vogliono chiudere questa sede, invece, ci mettono cinque minuti”, sottolinea Anna, da 37 anni negli uffici di viale Certosa.

L’anno prima era entrata Teresa, c’era ancora l’Italsider e lei non era ancora maggiorenne: “Il taglio del personale era nell’aria, quello dello stipendio è invece una mossa sporca. Così cancellano il nostro passato – racconta – Siamo legati a quest’azienda. Senza la nostra dedizione, negli ultimi cinque anni saremmo affondati. Questo non possono proprio ignorarlo”. Per Giancarlo, metà della sua vita nell’Ilva, la prospettiva del trasferimento o di un taglio del 20 per cento dello stipendio è “tragica”: “E pensare che avevamo salutato la vendita come una prospettiva di miglioramento. Invece…”. Già, forse il problema è questo: “Il governo ha raccontato di un’acquisizione fantastica – s’arrabbia Raffaella – Tanto le rogne, alla fine, toccano tutte a noi. La mia paura più grande? Il trasferimento”.

Francesco ha 39 anni, lavora nel commerciale ed è all’Ilva da due anni. È arrivato quando già la situazione era traballante: “Il Jobs Act? Mai visto un articolo 18 in vita mia. Vengo da nove riorganizzazioni in 15 anni alla Thyssen, non è quello che mi spaventa – afferma – Il punto qui è che per portare a casa quel che vogliono, rimettono tutto in discussione. Comprese situazioni e promesse fatte in fase di acquisizione”. Il passaggio fondamentale dal quale ripartirà entro la fine di ottobre una trattativa che ha fatto indossare il caschetto anche a impiegati e quadri, nostalgici dei Riva e di un’Ilva che non c’è più.

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