A tre anni dalla sentenza di primo grado sono arrivate le richieste di pena nel processo d’appello a Firenze per il caso dei derivati Mps. La pubblica accusa ha chiesto di inasprire la condanna decisa per gli ex vertici di Monte dei Paschi di Siena (l’ex presidente Giuseppe Mussari, l’ex dg Antonio Vigni e l’ex capo area finanza Gianluca Baldassarri) in primo grado. Il sostituto pg Vilfredo Marziani ha chiesto sette anni per Mussari e 6 anni per gli altri due imputati a fronte delle condanne a 3 anni e 6 mesi inflitte dal tribunale di Siena per concorso in ostacolo alla vigilanza. Le stesse richieste che avevano fatto nell’ottobre 2014 i pm titolari dell’inchiesta sul derivato Alexandria e in particolare sul mandate agreement, il contratto stipulato da Mps con i giapponesi di Nomura e occultato nella cassaforte dell’ex dg.
A fianco di Marziani anche oggi c’erano due dei tre sostituti che avevano seguito anche tutta l’inchiesta su Antoneveneta, poi trasmessa a Milano, Antonino Nastasi e Aldo Natalini, e che avevano fatto ricorso in appello contro la sentenza di Siena. Dopo le loro requisitorie è intervenuto il legale di Banca d’Italia, unica parte civile ammessa al processo, l’avvocato Antonio Baldassarre che ha chiesto la condanna degli imputati e la conferma del risarcimento per via Nazionale. Nella prossima udienza, fissata per il 2 novembre, la parola passerà alle difese mentre il presidente della Corte Maria Luisa Romagnoli ha poi annunciato che la successiva udienza, per eventuali repliche e la camera di Consiglio, si svolgerà il 7 dicembre e non il 20 novembre come precedentemente annunciato.
Mussari, Vigni e Baldassarri, per l’accusa, avrebbero aver nascosto nella cassaforte personale dell’ex direttore generale della Banca a Rocca Salimbeni il contratto (mandate agreement) in modo da evitare di iscrivere nel bilancio 2009 la perdita del derivato. Ufficialmente il documento venne ritrovato solo nell’ottobre 2012 dall’allora amministratore delegato di Mps, Fabrizio Viola, e fu consegnato ai magistrati senesi. Gli avvocati degli imputati però hanno sempre sostenuto che all’interno della banca si sapeva dell’esistenza del contratto e che questo documento non era un segreto neppure per gli ispettori della Banca d’Italia.