Qualcosa si muove per provare a contenere “lo sterminio dei campi”, di cui parlava il poeta Andrea Zanzotto.

Nei giorni scorsi sono state consegnate al Presidente del Senato Pietro Grasso le oltre 82.000 firme raccolte dalla coalizione italiana “salvailsuolo”, che prova opportunamente a mettere insieme la richiesta della legge nazionale contro il consumo di suolo con la “tolleranza zero all’abusivismo”; anche se sotto quest’ultimo profilo, a dire il vero, oltre lo slogan buono per tutti gli usi c’è solo un vago riferimento al ddl Falanga.

Oggi 14 ottobre sarà la volta del Forum Nazionale Salviamo il Paesaggio che presenterà la sua proposta di legge di iniziativa popolare dedicata allo stop al consumo di suolo. Qui, a quanto è dato ricavare dal programma, di lotta contro l’abusivismo edilizio, come “questione nazionale” (e, in particolare, meridionale) a sé nel più vasto campo dello scempio del territorio, non c’è proprio traccia.

In ogni caso, pur con queste criticità, queste iniziative sono indubitabilmente meritevoli e utili, specie in un Paese nel quale l’illegalità sistemica che lo pervade trova nel rapporto con il territorio, e con l’ambiente in generale, un sontuoso terreno d’elezione, e vi edifica (in senso letterale) monumenti imperituri.

Poi, contro quel pezzo di Paese comunque virtuoso, c’è “la cultura” che ha ispirato il su citato disegno di legge, quello che ha il “merito storico” di introdurre nel nostro ordinamento penale un primo, sostanziale riconoscimento della categoria, limpidamente italica, di “abusivismo di necessità”: sancito dalla priorità assegnata nelle demolizioni “agli immobili in corso di costruzione o comunque non ultimati alla data della sentenza di condanna di primo grado e agli immobili non stabilmente abitati”.

Il che, a contrario, altro non significa che quelli ultimati e quelli stabilmente abitati passano inesorabilmente in coda. E, quando la fila (delle escrescenze edilizie da abbattere) è lunga e l’organizzazione della Giustizia è quella tipica della gran parte degli uffici giudiziari nazionali – specie, ancora una volta, al sud – allora il turno di quelli in coda può anche non venire mai.

E’ la solita palude di cripto-condonismo (e, in un recentissimo passato, neanche “cripto”) – inconfondibile marchio di fabbrica del rapporto tra questo Paese e le regole che esso stesso si dà – che di tanta gloria di tutela ambientale e di pedagogia civile si è coperta nel tempo: legittimazione e sanatoria di pletore di obbrobri urbanistici, dileggio agli onesti, premio al banditismo ambientale di masse di “cittadini”, di ogni estrazione sociale, e insegnamento a tutti a fare come questi ultimi.

Ciononostante, il luminoso testo normativo in questione non è certo la fonte dei maggiori danni al territorio, e non lo sarebbe neanche se divenisse legge. Il bubbone più nocivo, in tal senso, è stabilmente incistato nella fondamentale legislazione nazionale dell’edilizia. Più precisamente, in quella di natura penale.

L’abusivismo edilizio, infatti, è punito con l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 10.328 a 103.290 euro, nei casi di esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso o di prosecuzione degli stessi nonostante l’ordine di sospensione.

Nel caso di lottizzazione abusiva di terreni a scopo edilizio e in quello di interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo (paesistico, ambientale ecc….) in variazione essenziale, in totale difformità o in assenza del permesso, la pena è sempre dell’arresto fino a due anni, ma il minimo dell’ammenda sale a 30.986. Con la relativa sentenza di condanna, il giudice ordina la demolizione delle opere abusive. Questi reati, come regolarmente accadeva in materia di ambiente fino all’approvazione, nel 2015, della legge “ecoreati”, sono contravvenzioni; ossia illeciti “di serie B”.

Tra le varie conseguenze che questo comporta vi è, in primis, il tempo della prescrizione, quello, cioè, decorso il quale il reato si estingue comunque: cinque anni, al massimo, dalla data di commissione del fatto. Un danno ulteriore che incorpora altresì una palese componente di beffa.

Specie se si pensi che, per orientamento consolidato della Cassazione, perché il giudice possa emettere l’ordine di demolizione (o mantenere quello emesso dal giudice del grado precedente) occorre indefettibilmente la sentenza di condanna dell’imputato. Il che significa che in caso di dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione, anche se il giudice accerti che quest’ultimo è stato effettivamente commesso dall’imputato, l’ordine di demolizione non può esser dato (o, se emesso, deve esser revocato).

Le conseguenze di questo tipo di “tutela penale” (si fa per dire) del territorio in questo Paese sono sotto gli occhi di tutti. Non per buttarla sull’esecrato “panpenalismo”, ma chi si mobilita in difesa del suolo forse farebbe bene a dedicare un pensiero, oltre gli slogan, anche a questo aspetto della questione.

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