“Due diversi gruppi criminali“, uno che fa capo a Salvatore Buzzi e un altro a Massimo Carminati, ma nessuna mafia. Né “autonoma” né “derivata” perché è di fatto assente quella violenza, quella intimidazione che caratterizza le organizzazioni criminali, vengono riconosciute nell’articolo 416 bis. E né la corruzione, per quanto pervasiva, sistematica e capace di arrivare fino al cuore della politica, può essere considerata mafia. E neanche può chi giudica estendere l’applicazione della legge fino a forzarla. È la conclusione a cui arrivano i giudici della X sezione penale del Tribunale di Roma che spiegano in 3200 pagine i motivi perché hanno assolto gli imputati dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso infliggendo, il 20 luglio scorso, pene fino a 20 anni come nel caso di Massimo Carminati. “Tralasciando il clamore mediatico, non vi è dubbio che i fatti accertati siano di estrema gravità, intanto per il loro stesso numero, poi per essere stati i reati realizzati in forma associata e infine per la durata stessa della condotta antigiuridica, che è proseguita – ragionano i giudici – nel tempo e che, con l’affinamento dei metodi di azione, ha creato le premesse per una permanente operatività, interrotta soltanto dalle indagini prima e dal processo poi”.
Non un unicum criminale
Spezzato quello che per la procura di Roma era un “unicum criminale” le due formazioni appaiono distinte “per la diversità dei soggetti coinvolti nelle due categorie di azioni criminose, per la diversità stessa della azioni criminose e per la eterogeneità delle condotte organizzative ed operative; sicché – ragionano i giudici – non può essere condivisa la lettura unitaria proposta dall’accusa circa l’esistenza di un unicum criminale che, cementando le sue diverse componenti (criminali di strada, imprenditori e soggetti esterni alla amministrazione, pubblici funzionari corrotti) giunge ad avvalersi di una carica intimidatoria condizionante, da un lato, la legalità dell’agire amministrativo e, dall’altro, la libertà di iniziativa dei soggetti imprenditoriali concorrenti nelle pubbliche gare e ciò al fine di controllare ed orientare in proprio esclusivo favore gli esiti delle relative procedure”. I giudici quindi ignorano quella che era stata la filosofia spiegata dallo stesso Carminati in una intercettazione diventata famosa con la teoria del Mondo di mezzo che collegava il basso (del recupero credito) e l’alto (politici e imprenditori): ma il Tribunale ritiene invece che “due mondi – quello del recupero crediti e quello degli appalti pubblici – siano nati separatamente e separati siano rimasti, quanto a condotte poste in essere e consapevolezza soggettiva dell’agire comune”.
Senza violenza e intimidazione non c’è mafia
I magistrati analizzano quindi sia “l’impossibilità di tenere conto” “di eventuali condotte qualificabili come “riserva di violenza”, condotte che possono riguardare soltanto le mafie “derivate”, le uniche in grado di beneficiare della intimidazione già praticata dalla struttura di derivazione”, sia “l’impossibilità di attribuire mafiosità all’associazione volta al conseguimento illecito di appalti pubblici mediante intese corruttive“.E quindi il reato previsto dall’articolo 416 bis “non si configura quando il risultato illecito sia conseguito con il ricorso sistematico alla corruzione, anche se inserita nel contesto di cordate politico-affaristiche ed anche ove queste si rivelino particolarmente pericolose perché capaci di infiltrazioni stabili nella sfera politico-economica”. “Cordate, peraltro, che non sono risultate prerogativa esclusiva del “gruppo Buzzi” sicché- proseguono i magistrati – …. deve constatarsi un sostanziale e gravissimo inquinamento dei rapporti tra politica ed imprenditoria“. Per i giudici il metodo mafioso si configura in presenza di “esercizio della forza dell’intimidazione”.
L’intercettazione del mondo di mezzo e la mancata mafiosità
Per l’accusa aveva grande rilevanza l’ormai nota intercettazione tra Carminati, il fido Riccardo Brugia e il costruttore Cristiano Guarnera che aveva dato il nome all’inchiesta. Partecipe del “mondo di sotto” vista la sua storia criminale, conosciuto nel “mondo di sopra” per essere diventato un criminale per ragioni politiche, il Nero si colloca, insieme a Brugia, in una posizione intermedia – per l’appunto il “mondo di mezzo” – dalla quale interagire con più gruppi e più ambienti, poiché “esiste un mondo di mezzo in cui tutti si incontrano…anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse a che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non può fare nessuno…”.
“Il tenore stesso della conversazione – annotano i giudici – dimostra che Brugia e Carminati – mentre erano al bar – stavano effettuando una ricognizione della loro condizione e collocazione (per l’appunto intermedia tra i due mondi) e descrivendo una situazione di fatto già esistente: tanto da fare riferimento ad un noto personaggio che impiegava terze persone per farsi acquistare e recapitare sostanza stupefacente, non potendovi provvedere direttamente a causa della sua notorietà. I due, che condividevano la scelta di abbandonare il settore del recupero crediti per passare ad attività di tipo “imprenditoriali” ( e Brugia aveva già in corso affari immobiliari con Diotallevi e l’imprenditore Tartaglia), meditavano di sfruttare le potenzialità imprenditoriali altrui per conseguire illecite utilità: dunque concordavano nei loro intenti criminosi, comunicandoli a Guarnera al solo fine di mostrare allo stesso la convenienza nel rapportarsi con loro”.
Quelle parole, dunque, non sono una prova del fatto che Carminati sa di essere il vertice di una vera e propria organizzazione criminale con la quale tutti devono fare i conti? Per, la corte no. “Da ciò – scrivono le toghe – non può farsi derivare la prova della costituzione di un’associazione proprio di stampo mafioso, in grado di avvalersi della forza di intimidazione derivante dal “mondo di sotto” né, soprattutto, la dimostrazione che un simile progetto fosse stato reso noto a tutti i sodali (dell’unica associazione configurata dall’accusa) e da costoro fosse quindi conosciuto e condiviso”. In pratica secondo i giudici in un’associazione di stampo mafioso tutti gli appartenenti all’ipotetica associazione di Carminati sarebbero dovuti essere a conoscenza di ogni progetto ideato dallo stesso Carminati. Cosa che per la verità nelle associazioni mafiose storiche, come Cosa nostra, non è mai avvenuta: il capo o il boss non è mai tenuto a dire nulla ai suoi sottoposti.
Non è sufficiente ricorso sistematico della corruzione
“Ciò giustifica – proseguono le motivazioni – il sentire comune, che attribuisce a tale sistema di potere una complessiva ‘mafiosità’, alla quale dovrebbero essere ricondotti i fatti esaminati e tuttavia tale valutazione attiene ad un concetto di “mafiosità” che non è quello recepito dal legislatore nella attuale formulazione della fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p. per la quale, come già detto, non è sufficiente il ricorso sistematico alla corruzione ed è invece necessaria l’adozione del metodo mafioso, inteso come esercizio della forza della intimidazione”. Ed è per questo che i giudici parlano di “conclusioni obbligate, quelle del Tribunale (si tratta, peraltro, dello stesso collegio giudicante che nel 2015 riconobbe la mafiosità del clan Fasciani di Ostia), sia per la attuale formulazione dell’art. 416 bis c.p., sia per l’impossibilità di interpretazioni talmente estensive di tale norma da trasformarsi – con violazione del principio di legalità – in vere e proprie innovazioni legislative, che rimangono riservate al legislatore.
“Nessuna risultanza istruttoria dimostra – continuano i giudici – però, che Buzzi ed i suoi sodali, nelle attività illecite riguardanti la pubblica amministrazione, conoscessero ed intendessero avvalersi dei metodi e dei comportamenti utilizzati dal gruppo costituitosi presso il benzinaio di Corso Francia”.
Nessun legame con la banda della Magliana
Né mafia autonoma, né mafia derivata ma anche nessun legame con la Banda della Magliana: “Non è possibile stabilire una derivazione – si legge nelle motivazioni – tra il gruppo operante presso il distributore di benzina, l’associazione operante nel settore degli appalti pubblici e la Banda della Magliana, gruppo criminale organizzato e dedito ad attività criminali particolarmente violente e redditizie (il traffico e lo spaccio di droga, il gioco d’azzardo, le usure e le estorsioni, il possesso di armi e gli omicidi per assicurarsi il controllo del territorio ) che ha operato nella città di Roma, ramificandosi pesantemente sul territorio, oltre 20 anni orsono, tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 90″.
L’inafferrabile Massimo Carminati
Massimo Carminati, condannato a 20 anni, è “destinatario, per l’importanza delle vicende giudiziarie in cui è stato coinvolto e per l’interesse mediatico che le ha accompagnate, di una notevole e duratura fama mediatica, che ne ha consolidato l’immagine e gli ha creato intorno un alone di inafferrabilità: per essere sopravvissuto; per aver riportato, per quelle vicende, condanne complessivamente modeste; per essere andato assolto da alcune gravi imputazioni. Fama a parte – sottolineano – l’esistenza di un collegamento soggettivo non significa, però, automatico ripristino o prosecuzione del gruppo precedente: non è sufficiente l’intervento di Carminati, ”erede della banda della Magliana”, a stabilire un rapporto di derivazione tra detta banda e successive organizzazioni in cui Carminati si trovi coinvolto. Peraltro, neppure per la banda della Magliana si è potuti giungere ad affermare che si trattasse di un’associazione di tipo mafioso”.
Il gruppo di Buzzi e il pesante inquinamento della politica
Discorso simile per quanto riguarda la corruzione. Nel settore degli appalti pubblici, il gruppo di Salvatore Buzzi “ha avuto la capacità di inquinare durevolmente e pesantemente, con metodi corruttivi diffusi, le scelte politiche e l’azione della pubblica amministrazione: ciò dimostra la pericolosità dell’associazione nel suo complesso ed anche quella dei singoli partecipi i quali, dotati di diversificate qualità professionali, le hanno fatte consapevolmente convergere verso la realizzazione dei loro propositi criminali. La lunga esperienza maturata da Buzzi nel settore della cooperazione sociale e gli stessi contatti – proseguono i giudici – con politici ed amministrativi, costruiti nel tempo in relazione all’attività delle cooperative, sono stati da lui sapientemente utilizzati e sfruttati per la commissione di reati finalizzati, consentendo una innaturale espansione sul mercato, a potenziare i profitti delle cooperative e dei soggetti che di esse avevano la direzione e la gestione”. “Il dato appare ancor più grave ove si tenga conto del percorso di Buzzi – si legge ancora nella sentenza – che pure aveva tentato di recuperare il suo passato criminale, e della conoscenza di tale percorso che avevano i suoi collaboratori e sodali, conoscenza che avrebbe dovuto indurre a salvaguardare l’esperienza della creazione di cooperative sociali finalizzate al recupero di ex detenuti e non ad orientarle verso la commissione di reati gravi, e commessi in forma associata”.
“Buzzi poi non mancò di assicurare il suo voto – e quello dei dipendenti delle sue cooperative rosse – al sindaco Alemanno (archiviato dall’accusa di 416 bis) che si candidava nuovamente al comune di Roma nel maggio 2013 (anche se si trattò di “voto disgiunto” ovvero di voto solo alla persona del Sindaco e non alla coalizione di destra); né omise di aiutarlo nella campagna elettorale per le elezioni europee, mettendolo in contatto con Campennì per reperire voti in Calabria”.