Quando si parla di pace sociale si intende quella pace che deriva da una civile convenzione a mantenere la sicurezza di una nazione, l’ordine pubblico, rispettando le regole, le leggi, gli usi che regolamentano il vivere comune e il dovere di evitare ogni tipo di azione violenta o delittuosa, singola o organizzata che mini questa pace. Ci sono sempre stati individui che disturbavano la pace sociale, ce ne sono e probabilmente sempre ce ne saranno. E il modo in cui viene definito e controllato il disagio che essi creano è in continua evoluzione. Il nostro patrimonio di immagini, linguaggio, categorie, conoscenze, credenze e paure di chi disturba si evolve anch’esso, talora riflettendo i mutamenti nel controllo sociale, talaltra determinandoli.
Quando una persona offende, disturba o danneggia altre, esistono varie forme di disapprovazione sociale. Il fatto potrebbe essere considerato dai protagonisti e dalla gente, in genere, come punto di emersione di un conflitto privato fra l’offensore e l’offeso e, in questo caso, ognuno potrebbe continuare a occuparsi dei fatti propri. Là dove, invece, qualcuno ritenesse che chi dà fastidio violi la legge, allora potrebbe denunciare il reprobo perché nei suoi confronti si promuova l’azione penale. Se poi l’offensore fosse malato, soffrisse di disturbi nervosi, allora si dovrebbe chiamare un medico, o uno psichiatra, e il disturbatore diventerebbe così un paziente da curare. Potrebbe darsi, altrimenti, che sia la mancanza di fede a portare una persona a creare problemi alla comunità e, in tal caso, la penitenza, la preghiera e la conversione sarebbero il rimedio per il peccatore.
Nulla esclude, inoltre, che possano essere chiamati in causa gli amministratori pubblici che, ritenendo che certi permessi e privilegi, come ad esempio lo svolgere talune professioni o il ricevere determinati contributi, spettino soltanto al novero delle persone moralmente ineccepibili, potrebbero semplicemente revocarli al disturbatore della pace sociale. Alla fine, nulla esclude che la persona fastidiosa possa sostenere che ha tutto il diritto di continuare a comportarsi nel modo disapprovato e che se qualcuno ne è offeso è affare suo e dovrà solo imparare a vivere anche con chi lo disturba.
Di questi sette modi di disapprovazione sociale, i primi quattro sono l’illecito civile, il crimine, la malattia, il peccato. Gli altri tre sono di meno agevole definizione: il primo è una versione approssimativa del reato, semplificata amministrativamente; il secondo è un metodo basato sulle “condizioni di meritevolezza” necessarie per ottenere delle concessioni dalle autorità pubbliche, dai sussidi assistenziali alle licenze, ai monopoli; il terzo si fonda sul riconoscimento o di determinati diritti e libertà e sorge dal movimento per i diritti civili. Essi si presentano, comunque, raramente nella loro forma pura e la maggior parte dei comportamenti di disturbo è sottoposta a una serie di modi diversi di disapprovazione. Molta gente pensa, ad esempio, che l’incesto sia un peccato, che i padri che hanno rapporti sessuali con le figlie siano malati e che dovrebbero essere rinchiusi in prigione per tutta la vita: nella disapprovazione di questo fatto si mischiano elementi di peccato, crimine e malattia.
Nonostante la molteplicità dei metodi di disapprovazione e di controllo sociale, dall’illecito, al peccato, alla malattia, ai requisiti di meritevolezza imposti dallo Stato del pubblico interesse, i diritti propugnati dai nuovi movimenti rivendicativi, il crimine ha occupato un posto troppo centrale nella nostra considerazione degli individui che disturbano la pace sociale. Al crimine si presta troppa attenzione, magari perché le discipline che studiano il disagio e la disapprovazione, la sociologia e la criminologia, sono sorte proprio nel periodo in cui esso era al suo apice.
Le tendenze nuove e diverse presenti nel controllo sociale oggi in atto e la limitazione a un breve periodo storico dell’egemonia del crimine, suggeriscono che il nostro prevalente interesse per il crimine è distorto. E diverse sono, infatti, le ragioni per metterne in dubbio la centralità o almeno per renderne la comprensione problematica quanto le risposte basate sul peccato o sulla malattia. Innanzi tutto, se lo Stato è oggi un’istituzione molto forte e stabile, non sempre è stato così: gli Stati dell’Europa del sedicesimo secolo erano piuttosto deboli, con un raggio d’azione limitato e senza significativi investimenti per istituzioni fondate sul paradigma criminale. Le moderne forze di polizia, del resto, sono prodotti del diciannovesimo secolo, come pure lo è l’ascesa del concetto-guida di crimine.
La seconda ragione che induce a dubitare della centralità di questa forma di disapprovazione sociale è la fuga progressiva dal sistema della repressione penale, dalla cui sfera le società occidentali, negli ultimi cinquant’anni, hanno sottratto molti comportamenti di disturbo che solo un secolo prima vi avevano immesso. Attraverso la depenalizzazione e l’uso di altre forme di controllo si evitano e si fanno saltare i rigidi principi della tutela giurisdizionale, propria del diritto penale. Infine, la possibilità d’indagare, processare, classificare, stigmatizzare, punire e manipolare, stante la crescita, nel corso del ventesimo secolo, dell’assistenza pubblica e del pubblico interesse, sono maggiori di quanto siano mai state, quantunque un numero sempre minore di queste attività si compia ormai nella sfera penale.