In Italia si assume poco da diversi anni ormai, e il quadro è cambiato solo di poco a seguito del jobs act. Nessuna legge sul lavoro ha creato mai lavoro da sola, senza crescita economica. Senza crescita non c’è la fiducia nel futuro che le imprese considerano necessaria per assumere a tempo indeterminato. Non bastano i minori costi di licenziamento.
Tutto il lavoro dipendente è colpito. La pubblica amministrazione assume poco a causa della crisi del debito sovrano. Il blocco del turnover del personale, assieme al blocco degli scatti stipendiali di molte categorie, compresi i professori universitari sono fra i motivi più importanti della bassa crescita. Con i vincoli europei al bilancio pubblico, ma soprattutto la già altissima pressione fiscale, occorre, invece, ridurre gli sprechi ed aumentare le assunzioni, soprattutto di laureati. Il governo e le regioni mi sembra stiano arrivando a questa conclusione.
Il privato non assume oltre che per la bassa crescita, anche perché i giovani hanno scarse competenze lavorative. Qui bisogna ampliare (non ridurre come stanno dicendo in questi giorni alcuni studenti) il ricorso all’alternanza scuola lavoro e, anzi, ampliare gli spazi del principio duale nel nostro sistema d’istruzione, consentendo l’apprendistato alla tedesca per chi lo vuole fare. Cominciamo così, liberalizzando l’apprendistato alla tedesca per chi lo vuole fare e vediamo se cresce da solo. Così si evita di imporlo dall’alto. Alcune imprese lo richiedono.
In queste condizioni, le libere professioni sono uno sbocco sempre più importante per i neo-laureati. Già lo sono state in passato. Non è un caso che il lavoro autonomo interessi una quota maggiore di occupazione rispetto ad altri paesi avanzati.
Le libere professioni sono state a lungo una via di passaggio verso altri sbocchi, ad esempio il pubblico. Siccome i concorsi a un certo punto si sono fermati, molti giovani sono rimasti “intrappolati”, spesso in posizioni marginali. È stato un effetto locking in.
Mi piace la definizione di “lavoro autonomo di sopravvivenza”. Per molti è così. In economia si parla a volte di “impresa marginale”. Sono là sulla soglia della disoccupazione o della working poverty, con remunerazioni sotto la soglia della povertà, e che sopravvivono grazie all’aiuto di genitori e parenti.
Ecco, allora il senso della mia proposta. Cerchiamo di valorizzare le professioni libere e la partecipazione dei giovani, con un contratto a tempo indeterminato o almeno sufficientemente lungo da assicurare una prospettiva stabile che acceleri la formazione professionale e la capacità di creare reddito. Bisogna anche garantire la convenienza dei professionisti però.
Potrebbe servire un contratto di apprendistato iniziale e di lavoro dipendente dopo, ma della durata di almeno 10-15 anni. Spesso il professionista affermato non se la sente di investire nella formazione del suo praticante. La spiegazione è nei manuali di economia. Senza una prospettiva a lungo termine, il professionista affermato che investe nella formazione del giovane praticante rischia di creare solo un altro concorrente, ma non trarrà alcun vantaggio.
Una soluzione a questa forma di fallimento del mercato potrebbe essere un contratto che leghi il giovane allo studio professionale per un numero sufficiente di anni. In questo caso, il professionista si obbliga a formare il giovane e a pagargli uno stipendio, il cui livello potrebbe essere sottoposto a contrattazione, ma con obblighi ben precisi per il giovane. Se il giovane abbandona lo studio professionale deve pagare una somma di danaro. Penso al contratto fra esercito e piloti dell’aeronautica.
Lo Stato potrebbe contribuire non solo defiscalizzando il reddito del neolaureato nei primi anni, ma anche riconoscendo valore formativo al rapporto lavorativo, certificando, dietro il superamento di un esame, una qualifica professionale valida per l’accesso ad alcune posizioni lavorative di alto profilo o di tipo dirigenziale nel pubblico. Naturalmente, ciò vale per chi non vuole restare nella professione libera.
Nel settore legale, si potrebbe riconoscere la qualifica acquisita ai fini dell’entrata nei ranghi della magistratura togata e/o di quella onoraria. Si riconoscerebbe così alla seconda un ruolo e uno status più elevato di quello attuale. Sarebbe anche una soluzione alla riforma in discussione in Parlamento, che, invece, comporta uno svilimento della figura del giudice onorario.