di Nicola Donnantuoni*
Risale a questa estate la notizia di quattro licenziamenti intimati via WhatsApp. Essa desta un certo scalpore, perché invita a riflettere sulla possibilità che comunicazioni tanto importanti per la vita delle persone possano essere trasmesse con mezzi diversi da quelli cui siamo abituati (la raccomandata, nell’immaginario collettivo, è ancora ritenuta lo strumento più idoneo e, forse, il più opportuno). L’avvento delle nuove tecnologie e dei nuovi mezzi di comunicazione, però, dovrebbe spingere il legislatore e gli operatori del diritto a confrontarsi con la realtà, apprestando quanto prima le dovute modifiche normative e, soprattutto, le dovute tutele, con lo scopo fondamentale di garantire certezza ai rapporti giuridici.
Per ora sono stati i giudici a dover fare i conti con la realtà, e le prime risposte lasciano un po’ perplessi. Il tribunale di Genova, con provvedimento del 5 aprile 2016, ha ritenuto formalmente corretto (vale a dire intimato per iscritto) un licenziamento comunicato tramite sms. La Corte d’appello di Firenze, con sentenza del 5 luglio 2016, è giunta alla medesima conclusione. L’ultima pronuncia in tal senso è quella del tribunale di Catania (27 giugno 2017), che ha ritenuto idoneo ad assolvere l’onere della forma scritta addirittura un licenziamento intimato via WhatsApp.
La lettura delle motivazioni con le quali i giudici sono giunti a tali conclusioni, non risolve tutti i dubbi: la magistratura ha focalizzato la sua indagine sul fondamentale requisito della forma scritta del licenziamento, mancando la quale il recesso dal rapporto di lavoro viene sanzionato con la reintegrazione nel posto di lavoro, la più grave tra le sanzioni. Si è dimostrato un approccio sicuramente condivisibile e molto pratico: tutti noi, ormai, comunichiamo anche attraverso sms, WhatsApp, chat, messaggi vocali, a volte addirittura servendoci di messaggistica istantanea su piattaforme come Facebook, Skype o Messenger.
Se le nostre comunicazioni possono avvenire efficacemente con il supporto di tali strumenti, probabilmente anche il licenziamento può seguire la stessa sorte. Probabilmente è vero che anche un messaggio sms o WhatsApp può soddisfare il requisito della forma scritta. Questo però è solo un lato della medaglia. Le sentenze, a ben vedere, hanno analizzato casi nei quali era pacifico, perché riconosciuto in atti, che il lavoratore avesse avuto conoscenza del “messaggio” di licenziamento. Ma i giudici non affrontano, perché non era loro richiesto, un altro e diverso tema di grande importanza: il lavoratore ha l’obbligo giuridico di ricevere e quindi di “conoscere” il contenuto di un sms o di un messaggio WhatsApp?
Cosa accade se il lavoratore decide di spegnere il suo smartphone, di disinstallare WhatsApp, di non voler più utilizzare i social network? Io ritengo che ciascuno di noi abbia questo diritto, perché nel nostro ordinamento non esiste, in termini generali ed incondizionati, l’obbligo o l’onere di ricevere comunicazioni. Il licenziamento è pur sempre un atto unilaterale recettizio, vale a dire una comunicazione che acquista efficacia nel momento in cui perviene a conoscenza della persona alla quale è indirizzata (art. 1334 Cod. Civ.). Nessun problema, dunque, qualora il testo scritto del licenziamento venga consegnato a mano direttamente al lavoratore (che, sul luogo di lavoro, peraltro, ha l’obbligo giuridico di ricevere le comunicazioni). Qualora lo scritto, invece, venga “indirizzato” al lavoratore in altro modo e in altro “luogo”, esso si considera conosciuto “nel momento in cui giunga all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia” (art. 1335 Cod. Civ.).
La giurisprudenza è sempre stata piuttosto elastica nell’interpretare il concetto di “indirizzo”, che non deve necessariamente coincidere con la residenza anagrafica, ma può essere individuato anche nel domicilio, nella dimora o comunque nel luogo di normale frequenza. Ad oggi, mi pare, né la Legge né la giurisprudenza hanno dato una risposta al quesito che rappresenta l’altro lato della medaglia: esiste un generale obbligo giuridico di ricevere comunicazioni indirizzate verso lo smartphone o trasmesse sui social network?
A mio avviso la risposta è negativa. Forse si potrebbe ipotizzare che tale obbligo derivi, in capo al lavoratore,dai generali principi di correttezza e buona fede che sempre devono accompagnare lo svolgimento del rapporto di lavoro. Ma allora, e guardando dal lato del datore di lavoro, può dirsi rispettoso dei canoni di correttezza e buona fede un licenziamento intimato a un barista tramite sms come quello analizzato dal tribunale di Genova: “non faccio più aperitivi, buona fortuna”? Ho i miei dubbi.
*Avvocato giuslavorista, socio Agi – Avvocati giuslavoristi italiani, nato e cresciuto a Milano, mi occupo da sempre di Diritto del lavoro. Cerco, per quanto mi è possibile, di esercitare la professione nel rispetto di un significato etico e il Diritto del lavoro, in questo, mi è di aiuto: i suoi protagonisti sono soggetti appassionati e le loro passioni sono rivolte alla ricerca di ciò che è giusto.