Un’operazione antidroga in Sicilia scatena la tempesta politica in Albania. Due cugini dell’ex ministro degli Interni Saimir Tahiri sono tra i nomi di punta dell’inchiesta sul narcotraffico transnazionale portata avanti dal Gico della Guardia di Finanza di Catania. Uno di loro tira in ballo il politico nelle conversazioni intercettate su debiti da pagare con chi lo aiuta. E in Italia arriva a bordo di un’Audi A8 intestata a Tahiri, che in quel momento, nel marzo 2014, è ancora ministro, ruolo ricoperto fino alla scorsa primavera, quando è stato silurato anche a causa delle voci troppo insistenti sul suo conto.
Al di là dell’Adriatico la notizia è giunta in fretta e ha alimentato prima i sospetti, cui hanno fatto seguito gli atti della procura che ha chiesto al Parlamento l’arresto dell’ex ministro. Nelle stesse ore è arrivata la richiesta di dimissioni del premier Edi Rama è stata sottoscritta nelle scorse ore dai partiti albanesi di centrodestra e dalla formazione di centrosinistra all’opposizione. Non una realtà qualunque, quest’ultima, ma il Movimento socialista per l’integrazione (Lsi), di cui è leader e fondatore Ilir Meta, da luglio presidente della Repubblica d’Albania. È la marijuana, ancora una volta, il perno dello scontro. Perché “Kanabistan”, come è stato ribattezzato il Paese delle Aquile, è la sintesi non solo della grande produzione di erba che da lì giunge in tutta Europa, ma anche dei forti dubbi sul sistema di corruzione della polizia e di collusione della politica. Dubbi che, secondo la lettura data da un pezzo del parlamento di Tirana, trovano riscontro pieno nell’operazione “Rosa dei venti” di lunedì scorso.
Tra i sette arrestati dalle Fiamme Gialle c’è Moisi Habilaj, 39 anni, mentre un mandato di cattura pende sulla testa del fratello Florian, detto Lolò, di 37, oltre che di altri tre connazionali. Moisi e Florian sono due dei quattro “fratelli Habilaj” a cui le cronache albanesi attribuiscono da tempo il controllo del traffico di droga nella piazza di Valona. Non due nomi qualsiasi, appunto. “Sono cugini di decimo grado”, ha replicato Tahiri su Facebook dopo il terremoto con epicentro a Catania, aggiungendo di non aver avuto con loro “nessun rapporto, tanto meno illecito” e dicendosi pronto a rinunciare all’immunità parlamentare per essere sottoposto ad inchiesta. Il ruolo che ha ricoperto fino a poco fa nel governo imbarazza il primo ministro Edi Rama: “Ho sempre dato il mio sostegno a Tahiri per la sua integrità. Ma oggi – ha scritto su Fb – gli albanesi hanno bisogno di sapere solo la verità. Perciò la giustizia deve andare fino in fondo a questa storia senza perdere tempo e fare piena luce sui fatti”.
Nell’ordinanza del gip Loredana Pezzino, la ricostruzione è chiara: “L’organizzazione – è scritto – non ha affatto carattere rudimentale, ma al contrario è compiutamente organizzata con una chiara suddivisione dei ruoli. Di qui il continuo riferimento, da parte degli associati, ai soggetti che al suo interno rivestono un ruolo apicale, come Habilaj Moisi, referente indiscusso del gruppo”. E’ lui, secondo gli inquirenti, il “deus ex machina della complessa e articolata attività organizzata di detenzione ed importazione dall’Albania all’Italia di assai ingenti quantitativi di sostanza stupefacente di tipo marijuana”. Lui al timone del gruppo composto anche dal fratello Florian, dai cugini Maridian e Armando Sulaj, da Nezar Seiti e Fatmi Minaj (rispettivamente genero e suocero), oltre ai tre italiani Vincenzo Spampinato, Angelo Busacca e Gianluca Passavanti. Referente di Habilaj per Catania pare essere Antonino Riela.
Per arrivare in Sicilia, la marijuana, assieme ai kalashnikov, percorre tutte le strade: arriva su gomma, sulle auto che transitano dai porti di Bari e di Brindisi; giunge soprattutto via mare, a bordo di pescherecci che approdano sulle coste di Capo Passero e dintorni. 3.500 chili di droga in due anni, secondo la Finanza, sono giunti in Sicilia tramite il canale di approvvigionamento gestito da Habilaj, i cui contatti nel Ragusano e Catanese sono consolidati da anni grazie ad albanesi emigrati o corrieri locali. Così sarebbe stato messo su un giro d’affari da 20 milioni di euro.
Cosa c’entra Tahiri? “30 (mila lek, ndr) glieli devo portare a Saimir”, dice Moisi Habilaj a Sabaudin Celaj mentre in macchina vanno verso Catania. È il 3 marzo 2014. I due contano i debiti da saldare con i sodali in Albania: “tu pensa, a parte i debiti che abbiamo…a parte i debiti che abbiamo preso…abbiamo 75mila lek (75mila euro) che sono automaticamente dovute. 30 sono dello ‘zio’, 30 glieli devo portare a Saimir… fanno 60. E 15 della nave che ci serve per forza. E sono 75mila lek […] togliamo anche questi dello Stato che abbiamo”. Gli investigatori annotano che Habilaj allude “probabilmente a suo cugino Saimir Bashkim Tahiri, ministro degli Interni della Repubblica d’Albania, nonché ad uomini delle istituzioni albanesi, evidentemente loro collusi”. I finanzieri del Gico aggiungono che “Habilaj e Celaj erano giunti in Sicilia a bordo di un’Audi A8 intestata a Saimir Bashkim Tahiri”.
L’inchiesta italiana rigira il dito nella piaga: nel 2015 fu un ex ufficiale di polizia di Fier, Dritan Zagani, a denunciare pubblicamente i possibili legami tra i fratelli Habilaj e le forze dell’ordine, con la presunta copertura dell’allora ministro, costretto ad ammettere pubblicamente che l’auto dello scandalo, l’Audi A8 nella disponibilità dei suoi cugini, gliel’aveva venduta lui nel 2013. “Questo è stato il mio grande e unico errore, non aver verificato prima a chi avrei dovuto vendere l’auto. Oltre a questo, nient’altro mi lega a loro”, ha dichiarato Tahiri.