Quanto sono lontani l'inverno 2015 e la primavera 2016, quando l'allora premier navigava fiducioso verso il referendum costituzionale, le elezioni erano lontane all'orizzonte e lui difendeva le istituzioni dagli attacchi delle opposizioni sui casi Etruria e banche venete. Proteggendo Palazzo Koch da chi accusava i suoi vertici di non aver vigilato abbastanza: "Le responsabilità si verificheranno in una commissione d'inchiesta"
Oggi che l’imperativo è darci dentro “pancia a terra” – espressione a lui tra le più care – in campagna elettorale, Matteo Renzi mette nel mirino Banca d’Italia e Ignazio Visco, utile bersaglio a pochi mesi dalle politiche. Quanto sono lontani il 2015 e il 2016, quando nonostante le tempeste Etruria, Pop Vicenza e Veneto Banca l’allora premier si sentiva sicuro in sella, le elezioni erano meno di un puntino lontano all’orizzonte e lui difendeva le istituzioni dagli attacchi delle opposizioni. Facendo scudo con il proprio corpo a Palazzo Koch da chi ne accusava i vertici di non aver vigilato a sufficienza.
Il vento soffiava forte nelle vele del governo, a fine 2015. Metabolizzato da mesi il Jobs Act, portato a casa anche l’Italicum, il Parlamento si apprestava ad affrontare gli ultimi voti dell’anno sulla Stabilità e preparava per il 2016 il rush finale sulla riforma costituzionale. Poi, il 9 dicembre, sui giornali arrivava la lettera con cui Luigino D’Angelo spiegava il proprio suicidio. L’ex operaio dell’Enel, 68 anni, era stato trovato il 28 novembre impiccato alla ringhiera della scala della sua villetta e nella missiva lasciata alla moglie raccontava di aver perso i 100mila euro che aveva affidato alla Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, filiale di Civitavecchia. Uno dei quattro istituti in crisi “risolti” dal governo con il decreto Salva banche, che aveva azzerato il valore delle azioni e delle obbligazioni subordinate. Dinanzi alla selva di strali che cominciava a piovere dalle fila dell’opposizione, Renzi sollevava lo scudo a difesa di Consob e Bankitalia: “Non risponderò che è colpa di altri – premetteva il segretario Pd il 15 dicembre – io difendo tutte le realtà istituzionali in questo momento perché si riesce insieme da una situazione di tensione. Poi le responsabilità si verificheranno in una commissione d’inchiesta“. Che Renzi era stato tra i primi a chiedere, salvo poi fare in modo che venisse infarcita di renziani ortodossi. E fosse presieduta da un Pier Ferdinando Casini che più volte si era schierato contro la sua nascita avvertendo che “farla è demagogia, rischiosa propaganda”.
Cinque giorni più tardi, parlando del proprio rapporto con Palazzo Koch a L’Arena di Massimo Giletti, Renzi tracciava le linee programmatiche della propria condotta sulla questione: “Se immagina che scarichi la responsabilità sugli altri, come faceva la politica in passato, ha sbagliato persona – assicurava il presidente del Consiglio dinanzi al vasto pubblico domenicale della prima rete pubblica, con fare solenne e sguardo da boy scout – Banca d’Italia e tutte le altre istituzioni godono del rispetto del governo italiano: la questione non è giocare allo scaricabarile“.
Una posizione che teneva salda per tutto il 2016, quando la priorità era portare a casa il risultato storico della riforma costituzionale e il capo del governo immaginava per il referendum esiti trionfali. I casi di Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, deflagrati mesi prima, imperversavano sul governo, che ad aprile patrocinava la nascita del Fondo Atlante. I cui sforzi per salvare le venete sarebbero poi finiti in una disfatta, con perdite per l’intero sistema creditizio che vi aveva contribuito.
Come il titano condannato da Zeus a tenere sulle spalle l’intera volta celeste, Renzi si sobbarcava alla difesa delle istituzioni economiche: “La valutazione non spetta al presidente del Consiglio. Il presidente del Consiglio lavora molto bene con Consob e Banca d’Italia”, rispondeva sereno a Bruno Vespa che a Porta a Porta gli domandava se Palazzo Koch e la commissione di vigilanza sui mercati guidata da Giuseppe Vegas avessero “sempre fatto fino in fondo il loro dovere”. Nessuna traccia della “mancanza di vigilanza” che oggi imputa a Visco, nessuna traccia dell’intervento che gli è toccato fare “per rimediare ai disastri che hanno fatto altri”. Era la puntata del 12 maggio, la stessa in cui aveva giurato e spergiurato che in caso di sconfitta al referendum “torno a fare il libero cittadino” e “non mi ricandido alle elezioni”, ma questa è un’altra storia.
La sicumera si infrangeva contro l’iceberg del 4 dicembre e i piani di navigazione cambiavano, nelle stesse settimane in cui andava a picco anche il piano di salvataggio del Monte dei Paschi, della cui sorte ha poi dovuto farsi carico il Tesoro con i soldi dei contribuenti. Scalpitando dietro le quinte per il desiderio di riportare l’Italia alle urne, il non più premier ma sempre segretario Pd si trovava di fronte alla necessità di togliere un argomento spinoso alle opposizioni, e mutava disposizione d’animo anche nei confronti di Visco. Lo spartiacque pubblico era stata il 12 luglio l’uscita di Avanti, il libro con il quale Renzi lanciava la sfida delle politiche. E in cui tra un’amenità autoreferenziale e l’altra (“La classe dirigente italiana (…) è rimasta in silenzio davanti alla vicinanza talvolta complice, talvolta connivente del sistema politico con quello del credito”) infliggeva un “colpo al santuario” di Bankitalia e metteva sull’ara sacrificale il capro espiatorio per il quale stava già affilando il coltello: “Quando arriviamo a Palazzo Chigi il dossier banche è uno di quelli più spinosi – premette – ci affidiamo quasi totalmente alle valutazioni e alle considerazioni della Banca d’Italia, rispettosi della solida tradizione di questa prestigiosa istituzione. E questo è il nostro errore, che pagheremo assai caro dal punto di vista della reputazione più che della sostanza”. Ignazio Visco era già sull’altare. Il resto è storia delle ultime 48 ore.