La mafia foggiana “feroce e profondamente radicata sul territorio” è così radicata in alcuni contesti della provincia garganica “da produrre una generalizzata omertà”, che spesso sfocia in “connivenza” e “consenso”. Una presenza tanto forte da spingere le vittime di estorsioni ad assumere “un atteggiamento di volontaria sottomissione” ai clan, cercandoli prima che siano loro a chiedere il pizzo. È un quadro a tinte fosche quello tracciato dalla Sesta commissione del Consiglio superiore della magistratura al termine del giro di audizioni di vertici degli uffici giudiziari, delle forze di polizia e dell’avvocatura del nord della Puglia. Una scelta fatta all’indomani della strage di San Marco in Lamis dello scorso 9 agosto, costata la vita al presunto boss Mario Luciano Romito, al cognato e a due contadini innocenti, uccisi perché testimoni dell’agguato.
“Imprenditori pagano prima della richiesta dei clan”
C’è un dato che più degli altri spiega quanto le famiglie criminali della provincia di Foggia riescano a controllare il territorio: negli ultimi anni, scrive il Csm nella risoluzione approvata mercoledì all’unanimità, gli imprenditori del Tavoliere vittime di estorsioni hanno assunto “un atteggiamento di volontaria sottomissione al fenomeno mafioso”. La sua manifestazione massima è nella scelta, spesso, di cercare in prima persona le persone legate alla Società Foggiana e alla mafia garganica per pagare il pizzo “anticipandone in tal modo la richiesta”. Non un modo, sottolinea il Consiglio superiore della magistratura, “per lucrare vantaggi”, ma la rassegnazione nel sapere che gli affari e la loro stessa vita “non possono affrancarsi dalla protezione mafiosa”.
“Generalizzata omertà. Irrisolti 240 omicidi”
Sono gli effetti prodotti dal “controllo militare”, affermano i consiglieri del Csm, esercitato dai clan sul territorio, in alcuni contesti “così forte da produrre una generalizzata omertà”. Che si traduce anche in denunce “pressoché inesistenti” da parte dei cittadini. E nei casi in cui le forze di polizia raccolgono il racconto delle vittime, aggiunge la commissione, queste “quasi sempre ritrattano in sede processuale”. L’atteggiamento omertoso e la scarsa collaborazione con le forze dell’ordine sono anche tra le concause dell’altissima percentuale di omicidi di mafia ancora irrisolti: l’80% dei 300 delitti di sangue consumati nella provincia di Foggia dagli anni Ottanta a oggi – 17 nell’ultimo da gennaio a oggi – “sono ancora irrisolti”, senza un colpevole, scrivono i relatori Ercole Aprile, Antonello Ardituro e Paola Balducci.
“Infiltrazioni nella pubblica amministrazione”
La mafia foggiana, quella garganica e i clan di Cerignola hanno in comune la capacità di coniugare tradizione e modernità. La prima – spiega il documento – è quella del ‘familismo mafioso tipico della ‘ndrangheta e della ferocia spietata della camorra cutoliana”, mentre la modernità consiste nella “vocazione agli affari, la capacità di infiltrazione nel tessuto economico-sociale, la scelta strategica di colpire i centri nevralgici del sistema economico della provincia, e cioè l’agricoltura, l’edilizia e il turismo”. A riprova di ciò, dicono i consiglieri del Csm, ci sono le recenti inchieste che “hanno dato conto della capacità della mafia foggiana di infiltrarsi nella pubblica amministrazione”.
“Espellere elementi permeabili a influenze criminali”
Sottolineando infine come la magistratura – costretta a fare i conti con una “forte percentuale di posti scoperti”, fenomeno “da affrontare al più presto” – e la polizia “sono impegnate in una continua opera di prevenzione e contrasto delle attività criminose, che già portato all’accertamento delle responsabilità penali di numerosi esponenti dei clan”, i consiglieri avvertono che bisogna “rompere l’omertà”, con l’azione sinergica di tutte le istituzioni. Serve “l’impegno di quanti ricoprono incarichi pubblici”, che devono essere innanzitutto capaci di “espungere chi al loro interno si è dimostrato permeabile ad influenze criminali”.
“Iniziative urgenti per il contrasto”
Per questo, la risoluzione chiede di “assumere tutte le più utili ed urgenti iniziative volte ad assicurare agli uffici giudiziari di Bari e di Foggia Palazzi di Giustizia adeguati alle esigenze di buon funzionamento del servizio, in condizioni di sicurezza e di logistica sufficienti a garantire l’efficienza ed il decoro delle funzioni giudiziarie”. Una richiesta che il procuratore capo di Bari Giuseppe Volpe, competente per i fatti di mafia anche nel territorio foggiano, ha lanciato già diversi mesi fa in due lettere indirizzate al ministero della Giustizia. Così come da anni ormai i sindaci della zona chiedono un forte intervento dello Stato, svegliatosi solo dopo la mattanza di agosto con l’invio di 192 uomini. “Un bluff”, lo definì Sinistra italiana che aveva scoperto come quei rinforzi fossero di poco superiori al buco di 181 unità nella pianta organica prevista in provincia, al quale il ministero dell’Interno non aveva mai posto rimedio.
Lo spettro della cupola
Nonostante l’allarme in primavera anche dalla commissione Antimafia e i segnali provenienti dal territorio fossero inequivocabili: da gennaio si contano due casi di lupara bianca e una scia di sangue che ha lasciato 17 morti sull’asfalto. Sullo sfondo, come raccontato in un’inchiesta dal fatto.it dello scorso giugno, la necessità di appianare con le armi quella situazione che la Dia aveva definito “fluida”, con lo scopo di formare una cupola che tenga insieme le tre distinte realtà criminali – Società foggiana, mafia garganica e clan di Cerignola – e pensi ad ingrossare i già redditizi affari, legati soprattutto al traffico di stupefacenti dall’Albania. L’ultimo passo per estendere la propria influenza su un territorio ancora più ampio di quello finora controllato.
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