Sabato 14 ottobre a Mogadiscio, la capitale della Somalia, c’è stato il più sanguinoso attentato terroristico nella storia del Paese. Il bilancio dice ormai 320 morti e ancora centinaia di feriti. Un camion pieno di esplosivo militare ha colpito l’Hotel Safari, vicino al quartiere delle ambasciate e a una delle arterie centrali della città, facendo una carneficina. Secondo quanto riporta il Guardian, dopo aver sentito fonti delle agenzie di sicurezza somale, un secondo camion avrebbe dovuto colpire il centro cittadino, ma il guidatore è stato fermato per tempo e portato in carcere. A Mogadiscio, questa strage è stata definita l’11 settembre della Somalia. Non c’è stata una vera rivendicazione, ma è molto probabile che la matrice dell’attentato sia qaedista. Infatti, la maggior parte delle milizie islamiste degli Al Shabaab, dal 2009 sono affiliate all’organizzazione fondata da Osama Bin Laden. Ma non sono le uniche: dal 2015 esistono infatti dei gruppi di “scissionisti”, che riconoscono l’autorità dello Stato Islamico e del Califfo al Baghdadi. “Sono piccoli gruppi che si concentrano prevalentemente a Nord, vicino alla regione autonoma del Puntland”, spiega Marco Di Liddo, senior analyst del Desk Africa per il Centro Studi Internazionali (CeSI). Non hanno a disposizione la stessa capacità di Al Shabaab e sono molto più deboli, sia in termini di numeri assoluti, sia in termini di capacità militari.
Tra i loro leader, però, c’è un personaggio con una lunga storia, passata anche dall’Europa. È quella di Abdulqadr Mumin, ex predicatore a Greenwhich, in Gran Bretagna, che per lungo tempo ha dimorato in Svezia. È famoso per la sua barba colorata di rosso. La sua figura carismatica è riuscita ad unire i clan e i sub-clan che vogliono fare carriera e guadagnare una certa autonomia. “La dichiarazione di fedeltà alla Stato Islamico non risponde sempre a logiche politiche, ma semmai chi lo fa vuole che i propri leader facciano carriere parallele, uscendo dalle logiche claniche di Al Shabaab”, prosegue l’esperto del CeSI. Sempre Di Liddo a marzo 2017 aveva indicato alcuni leader scissionisti: c’è il clan Warsangali, numeroso soprattutto a Nord ma perennemente escluso dal potere. Ci sono i suoi alleati del sub-clan Majerteen Ali Saleban, trafficanti di uomini ed armi. C’è poi l’ex-pirata Isse Mohamoud Yusuf “Yullux”, che comanda a Qandala, importante porto nella regione del Puntland. Non è un caso che proprio qui gli “scissionisti” abbiano compiuto il loro attentato più importante, il 27 ottobre del 2016.
Ma il vero protagonista dell’escalation del terrore in Somalia si chiama Abu Ubaidah, miliziano da dieci anni tra le fila degli jihadisti che ha preso il posto di Abdi aw-Mohamed, alias Godane, ucciso da un bombardamento americano nel 2014. Negli ultimi anni di Godane “c’erano state faide interne”, come ricorda Di Liddo, che insieme all’offensiva dei 20mila uomini della missione militare dell’Unione africana Amisom, finanziata con denaro europeo, e gli attacchi aerei di Francia e Stati Uniti a turno, hanno contribuito a indebolire il gruppo terroristico. “Al Shabbab ha lasciato Mogadiscio nel 2011, ma oggi Abu Ubaidah ha saputo ricompattare il gruppo e gli attacchi hanno una cadenza molto frequente. Tra il 2016 e il 2017, in concomitanza delle elezioni presidenziali (a febbraio è stato eletto l’attuale presidente Mohamed Abdullahi Mohamed, ndr), c’è stata una raffica di attentati che non si vedeva da anni”, prosegue Di Liddo. Il gruppo terroristico discende dalle Corti islamiche, una sorta di autogoverno locale, a base clanica, che ha messo sotto scacco il Paese dagli anni Novanta. Nel 2015 gli Stati Uniti hanno messo una taglia sulla testa del numero uno di Al Shaabab: chiunque fornirà informazioni agli Stati Uniti potrà mettere le mani su sei milioni di dollari. Di certo, quello che non fa paura ad Abu Ubaidah è la fuoriuscita di qualche miliziano: troppo pochi per essere davvero un problema.
Il gruppo di miliziani somali in fondo è piccolo: conta, stima Di Liddo, circa 50 combattenti di primo piano. Ma i miliziani, in tutto, sono oltre 9mila: è la capacità di fare reclutamento, infatti, che li tiene vivi. “I giovani somali si arruolano perché non vedono alternativa o perché pensano di poter accelerare una presa del potere. Ma al di là dei motivi politici ci sono quelli sociali ed economici”, continua l’analista del CeSI. Il Paese ha attraversato negli ultimi 18 mesi una delle peggiori carestie della sua storia. In particolare nelle aree rurali la crisi umanitaria diventa sempre peggiore. Tanto che in molte occasioni non ci sono più nemmeno i soldi per provare a partire come migranti: oggi i somali non compaiono nemmeno fra le prime dieci nazionalità di sbarchi in Italia, al contrario di quanto accadeva fino a pochi anni fa. L’altro fattore che ha contribuito a ridurre gli sbarchi dei somali, sottolinea Di Liddo, è il filtro effettuato da Paesi di transito come Niger e Sudan, nei quali l’Unione europea ha stipulato accordi di cooperazione proprio in funzione dello stop degli arrivi.
Questo contesto contribuisce a rendere la Somalia un laboratorio jihadista. Per di più non è difficile rifornirsi di armi e attrezzature militari. La procura di Firenze, il 4 ottobre, ha scoperto un gruppo di somali che dall’Italia, grazie al supporto di un italiano e di autorimesse – sempre italiane – compiacenti, era in grado di spedire in Somalia, presumibilmente a miliziani, vecchi mezzi del nostro esercito. Ma le principali fonti di approvvigionamento delle armi ad oggi restano o le “armerie galleggianti”, imbarcazioni che attraversano lo stretto di Hormuz piene di munizioni, oppure gli assalti alle postazioni di Amisom, la missione militare dell’Unione africana, poco presidiate. È probabilmente il caso anche di quest’ultimo attentato. Altra fonte di armi è la confinante Eritrea, dove la popolazione è in perenne stato di leva obbligatoria.