Cosa ci insegna la tristissima vicenda Weinstein? E’ evidente che il primo livello è quello della condanna sociale assoluta di un comportamento inaccettabile nel mondo occidentale (ma non in quasi tutte le altre forme di società storicamente estranee all’emancipazione femminile e al riconoscimento dei diritti umani).
Non è in discussione questo aspetto, né l’opportunità o meno di mettere sul banco degli imputati le stesse vittime degli abusi. Non voglio parlare della caratteriale attrice che vuole lasciare l’Italia (o almeno lo dice) o del celebre regista-attore che da lei così fermamente accusato ma col beneficio dell’incognito (tipo Diabolik).
Cosa ci insegna la vicenda Weinstein sul piano dei rapporti uomo-donna, o meglio, potente-sottoposto è ormai chiaro a tutti e lo era già molto prima che il potentissimo produttore hollywoodiano crollasse nel fango. Cosa ci insegna invece questa “bomba d’acqua” informativa sul piano della comunicazione e del rapporto virtuale con gli altri?
Sui social network si è svolta in queste ore una vera e propria guerra che ha lasciato morti e feriti, laddove i morti sono migliaia di bannati/e e i feriti le altrettante migliaia di insultati/e e vituperati/e. Schermati da uno schermo, una tastiera come mitra, tanti hanno sparato contro il prossimo online dando vita a un’offensiva di opinioni che alla base aveva una triste ovvietà: chi ha potere ha potere e, se può, lo impone agli altri. In ogni modo. In ogni campo. In ogni tempo.
La diatriba sulle giovani (e meno giovani) donne che si ricordano dopo venti anni di denunciare l’aguzzino nel momento in cui questo è già caduto e morente è per me molto meno interessante di quella che ha opposto migliaia di commenti in difesa di questa o quella posizione. Rabbia femminista 2.0 e sprezzanti maschi alfa, triste solidarietà di sorellanza e denunce di remote palpate al culo o del bacetto rubato a 12 anni dall’amico del fratello di 15 si sono confrontate su tutte le piattaforme con abbondante condimento di epiteti offensivi tra uomini e donne, ma anche, soprattutto, tra donne e donne. Personalmente, ho purtroppo contribuito anche io all’impennata delle suscettibilità, pubblicando un post: “Forse non è chiaro: #metoo lo dovete scrivere solo se siete state vittime di molestia, non per prendere like”, laddove volevo sarcasticamente irridere alle catene di sant’Antonio fatte per motivi così seri come una molestia o una violenza sessuale.
La sua creatrice, l’attrice americana Alyssa Milano (indimenticata interprete di Casalingo Superpiù), sostiene che il #metoo diffuso da tutte le donne che hanno subito molestia avrebbe reso palese la gigante vastità del fenomeno nella nostra società. Seguendo principi logici (non diciamo scientifici), prima di dare in pasto alla rete un hashtag del genere, bisognerebbe intendersi sul significato di molestia, visto che quello di violenza è abbastanza chiaro. Un fischio o un apprezzamento a voce alta passando per strada è una molestia? Personalmente li ritengo gesti degni di trogloditi, ma non molestia sessuale.
E se questi fossero comunque considerate molestie, sarebbero più o meno gravi, di un pesante insulto gridato dall’automobile con tanto di gesto cornifero con la mano all’indirizzo di una persona che compia una manovra pericolosa? E poi c’è il problema dell’emulazione.
In America, tutti/e sono corsi a infierire su Weinstein, già caduto e morente, laddove non si sarebbero mai azzardati a farlo prima dell’inchiesta del New York Times. Mettere un #metoo in bacheca è ancora più facile, perché non si chiede di fare nomi, di circostanziare casi, tanto che chiunque lo potrà fare senza tema di smentita ma mandando in vacca l’ingenuo intento di seria denuncia.
Il dato che emerge triste lo è senz’altro ma, certo, non ha nulla di scientifico, tanto che il commento di una ragazza ammette: “A te chi può dire cosa è vero e cosa no? Che orrendo sto giochino che fai”. A me cosa è vero non lo dice nessuno, ma tanto meno il numero di hashtag #metoo. Proprio un’attrice che sa di cosa parla, conforta la mia idea: “Sono una donna di 43 anni e mi pare si sia davvero perso il senso della realtà, questo circo che hanno messo su offende chi ha subito davvero delle molestie”.
Dal canto mio, per chiudere il discorso, non mi arrischio a sostenere la teoria del “Fica power” di Massimo Fini, seppur quotidianamente verificabile (“ci sono parecchie donne che utilizzano il proprio sesso per avere scorciatoie di carriera”), preferendo rifarmi alla ovvia ma non per questo meno illuminante opinione di Giovanna Trinchella, pubblicata su questo medesimo spazio: “L’unica cosa davvero utile che noi donne possiamo fare è educare i nostri figli e le nostre figlie. I primi al rispetto, alla gentilezza, all’onestà, le seconde alla forza, alla reazione, alla difesa e a non soccombere a paura e vergogna.”
Realtà 1, Social 0.