Mi trovavo nel mio ufficio privato, ovvero la mia stanza, e stavo per iniziare a scrivere uno dei prossimi post per questo blog, quando alle mie spalle cominciai a sentire un fastidioso brusio. Capii subito che si trattava del dottor Camo (mio consulente professionale) e del signor Sigfrido: il primo è un simpatico orsacchiotto, l’altro un pappagallo di peluche fin troppo ripetitivo. Io, invece, sento parlare i peluche – perché, c’è qualcosa di male? Vi assicuro che possono farlo, soprattutto quando il loro proprietario ha qualche rotella difettosa.
Ad ogni modo, indifferente, continuai nella mia attività – ovvero fingere di fare il giornalista, che poi è quello che realmente faccio nella vita – e li lasciai proseguire: argomento al centro, lo ius soli. Ora fate silenzio.
Dottor Camo: «Io allo ius soli dico sì»;
Signor Sigfrido: «Io allo ius soli dico sì»;
C: «Ti diverte così tanto ripetere?»;
S: «Ti diverte così tanto ripetere?»;
C: «Anziché fare lo stupido, almeno sai che cos’è?»;
S: «Ehm, so che ha a che fare con gli immigrati. Ma tutto quello che riguarda loro non mi interessa»;
C: «Che ragionamento insensato è mai questo? Si parla della società nella quale vivi, per cui ti devi interessare. Lo ius soli riguarda di fatto i bambini e la legge in discussione (che attende l’approvazione del Senato) propone di allargare i criteri per chiedere la cittadinanza ai minori nati in Italia da genitori stranieri o arrivati in Italia da piccoli, senza dover aspettare la maggiore età per richiederla»;
S: «Scusa, a questo punto perché non possono aspettare i 18 anni?»;
C: «Semplice, perché fino alla maggiore età non potrebbero godere degli stessi diritti dei loro coetanei nati in Italia da almeno un genitore italiano: questo nonostante parlino la stessa lingua, studino nelle stesse scuole, si frequentino nel tempo libero, facciano amicizie, si fidanzino… magari proprio con i coetanei italiani»;
S: «Ma se la concediamo poi va a finire che ci invadono definitivamente»;
C: «E questa dove l’hai sentita? Quindi dobbiamo far sentire di serie B dei ragazzini solo perché i loro genitori provengono da un paese straniero? Ormai, a furia di ripetere quello che senti in giro, non ti fermi più a riflettere: stai diventando come molti italiani, approssimativo e razzista»;
S: «Sarà, ma resta il fatto che non sono veri italiani»;
C: «Sù, adesso dimmi cosa significa essere italiano oppure americano, congolese, vietnamita eccetera»;
S: «Ehm, cioè, non saprei: di certo non è colpa nostra se siamo nati più ricchi di altri»;
C: «La stessa cosa allora vale per chi è nato in un paese più povero: ti ricordo che nessuno sceglie dove nascere. E poi caro il mio Sigfrido a guardare bene la tua etichetta si scopre che sei stato prodotto in Cina, lo sai questo?»;
S: «Va beh, ma io sono sempre stato in Italia, mi sento italiano»;
C: «E qui ci casca l’asino: ti senti italiano alla stregua di tutti quelli che da molto tempo vivono in Italia. Ti trovi nella stessa loro “barca”, scommetto che ora inizi a capire quanto sia paradossale questa situazione»;
S: «È diverso, perché io sono un oggetto»;
C: «Appunto, qui si parla di persone, ma che dico di bambini! Tu li intrattieni anche, e sai che tra loro non esistono differenze, pregiudizi e il colore della pelle non fa differenza alcuna. Se però noi adulti, pelouche inclusi, imponiamo delle differenze tra gli uni e gli altri, cosa mai insegneremo al futuro dell’umanità?»;
S: «Ma non tocca a noi e soprattutto mica possiamo salvare il mondo»;
C: «Certo che no, ma possiamo renderlo un posto migliore, cambiarlo per quanto possibile. Io comincerei a far capire che il colore della pelle è solo una differenza cromatica, che non rende peggiore o migliore una persona. E poi prima di parlare, vorrei che le persone e i pappagalli di pelouche, si mettessero nei panni di chi quella situazione la vive e si chiedano: e io, al loro posto, come mi sentirei?».