Lavoro & Precari

Permesso di lavoro per accudire il cane, perché è un insulto ai precari

La polemica l’ha lanciata Mauro Munafò sull’Espresso.it , dove ha raccontato, criticandola, l’esultanza della Lav per un permesso malattia ottenuto da una dipendente: due giorni per stare vicino non a un parente, ma al suo cane. Ora, io sono una persona che considera ridicole e assurde frasi del tipo “quella si è presa un cane invece di fare un bambino, che pena”: non solo perché ognuno si prende cura di chi gli pare, ma perché considero accudire un cane altrettanto nobile che un bambino e penso che un animale possa diventare tanto importante per una persona quanto un essere umano. Di più: a livello astratto, diciamo in una società utopica perfetta o quasi, dare un permesso per assistere un cane sarebbe cosa buona e giusta, oltre che ovvia. Come lo sarebbe, che so, concedere un anno al lavoratore per fare un rigenerante giro del mondo, piuttosto che dare alcune ore per praticare meditazione, o fare del volontariato, tutto ciò che fa stare bene noi e gli altri.

E allora perché sono d’accordo con il blogger dell’Espresso? Perché non stiamo parlando di una società utopica, ma di una realtà concreta e cioè quella italiana. Certo, chiariamo, il lavoro dipendente non è più il bengodi di un tempo. Come mi ha scritto una volta un acuto commentatore con i nuovi contratti non ti danno più una neanche una lavatrice a rate. L’eliminazione dell’articolo 18 li ha resi fragili, gli stipendi sono bassi, il lavoro e lo stress tanti, il mobbing diffuso e purtroppo scarsamente denunciato, vista la fame di lavoro e il terrore di perdere il posto.

Ma detto questo, il problema resta ed è questo: l’immensa, stratosferica, gigantesca differenza che esiste tra lavoro dipendente e lavoro autonomo o intermittente, differenza che si va allargando sempre di più invece che avvicinarsi, come i politici che hanno sempre suonato la fanfara delle flessibilità ci avevano ridicolmente promesso. Prendi un lavoratore dipendente, magari nel settore pubblico (ma non necessariamente), e un lavoratore autonomo privato, un libero professionista tipo psicologo o traduttore o altro. Il primo ha uno stipendio fisso, con tredicesima e talvolta quattordicesima, diritto alle ferie, malattia – per brevi ma anche ovviamente lunghi periodi se si ammala gravemente – poi maternità, mensa o buoni pasto, pagamento degli straordinari (anche se non sempre), possibilità di assentarsi per assistere parenti malati, sussidio di disoccupazione nel caso si venga licenziati (il problema non sussiste per il lavoratori pubblici, che nella maggior parte dei casi hanno il posto a vita), diritto alla sciopero, diritto alla pensione visto che il datore di lavoro versa contributi sufficienti perché ci si arrivi. Poi ovviamente ci sono aggiornamenti professionali e formazione gratuiti, così come sono gratuiti gli strumenti per lavorare, come il computer, periodicamente sostituiti.

Il lavoratore autonomo invece: non ha stipendio fisso, ma vive di quello che riesce a guadagnare con le varie commesse, deve pagare su quello che guadagna una quantità enorme di tasse più i contributi per la pensione che non avrà. Non solo: se si ammala non può lavorare e quindi non guadagna, pur essendo costretto comunque a versare i contributi, non ha alcun sussidio di disoccupazione, non ha ferie (a meno che non abbia accumulato soldi per andarci). Non ha diritto di sciopero, ovviamente, inoltre deve pagare la formazione per conto proprio, così come un’eventuale, salatissima, assicurazione sanitaria. Deve inoltre pagarsi gli strumenti con cui lavora e sostituirli di tasca propria quando si logorano o diventano obsoleti (pensate a un videoreporter freelance). Non ha buoni pasto né tantomeno permessi di sorta per assistere i parenti, ovviamente, e lo può fare solo a patto di smettere di lavorare e dunque, come sempre, di guadagnare. Ah, dulcis in fundo, ovviamente si deve normalmente pagare uno studio, almeno una stanza – e sono circa 500 euro, almeno nelle grandi città – se è avvocato o psicologo o architetto. Se invece non ha un obbligo di spazio per ospitare clienti, ma non vuole lavorare a casa da solo, per non restare isolato, deve pagarsi anche uno spazio di socialità come un coworking. Immaginate cosa gli resta in mano dopo aver sborsato soldi per tutte queste cose.

Insomma questo è quello che accade in questo Paese, dove tra l’altro il secondo tipo di lavoratore comincia ad essere la maggioranza. E allora è chiaro che la suscettibilità è altissima, e che dunque in questo tipo di contesto esultare per un diritto ad assistere il cane (ripeto, giustissimo, ma solo in teoria) finisce per diventare l’espressione di una “casta” che non guarda alla sofferenza degli altri lavoratori. Quelli che oggi hanno capito che l’unico antidoto alla povertà è diventare dipendenti, e non a caso si sono iscritti in massa alle graduatorie d’istituto delle scuole per diventare docenti, sia pure precari. Una reazione simile, ad esempio, l’ho avuta anche io quando la persona con cui vivo ha cominciato a fare smart working, ossia ad avere dei giorni per lavorare a casa, ma da dipendente. Ricordo la sensazione di rabbia e di amarezza, ovviamente paradossale e insensata, visto che ero contenta per lui e mi sembrava giustissimo. Ma mi sentivo come beffata, pensavo che se l’unico privilegio di un free lance è quello di non avere un ufficio in cui essere costretto ad andare, se questo viene concesso anche ai dipendenti allora cosa rimane a chi sceglie l’indipendenza?

Un’ultima nota la vorrei fare sulla vicenda di Marco Della Noce, che in questa questione rientra perfettamente. Un artista relativamente famoso, che oggi non ha più soldi e dorme in macchina. Sembra una parabola assurda e invece è assolutamente comune, sia agli artisti che ai lavoratori saltuari, ma nessuno ne parla. Gli artisti e gli attori sono lavoratori molto precari, penso a quelli che fanno teatro, ad esempio, o piccole comparse nel cinema. Vivono dei lavori che trovano, ma hanno lunghi periodi di non lavoro dove nessuno li tutela perché non ci sono sussidi. E allora non basta essere famoso, perché se non hai lavoro, e magari come nel caso di Marco Della Noce ti separi pure (altra cosa che può facilissimamente accadere) la strada della povertà è aperta. Come lo è per tutti quei lavoratori non dipendenti che guadagnano sempre meno, come i liberi professionisti o i lavoratori intermittenti, e che mano mano che diventano anziani trovano sempre meno lavoro. Per loro niente sussidi di disoccupazione, niente reddito di cittadinanza (che non esiste, figuriamoci), me neanche qualche forma di sussidio antipovertà, che ci sono ormai ovunque in Europa. Ah, naturalmente, niente pensione, in altre parole la prospettiva di vivere anni e anni da anziano senza reddito, non è chiaro a nessuno come, anche se la politica non se ne occupa. Ma la Costituzione? Abolitela pure, almeno sul lavoro è davvero carta straccia, ormai.