Pensavamo di esserci liberati della farsa in costume delle identità, di esserci finalmente tolti la zavorra del particolarismo linguistico, culturale e perfino etnico. Lo pensavamo dopo le vicende giudiziarie della Lega Nord, ma anche dopo la svolta “nazionale” di Salvini e di quel partito che aveva smesso di gridare “prima il Nord” (certo, ahimè Salvini si è messo a gridare “prima gli italiani”, non è che sia meglio…). Ma soprattutto pensavamo di esserci liberati di quei bislacchi progetti dopo decenni di studi in cui la linguistica, l’antropologia, l’etnologia, ci avevano detto e ripetuto che le identità sono porose, osmotiche, comunicanti, che le lingue sono vive, e che rintracciare e isolare i singoli “contributi” alla costruzione delle culture è un’opera non solo e non tanto pericolosa (poiché, come dice il poeta, i frutti puri impazziscono), ma inutile.

Avevamo letto le Comunità immaginate di Anderson e ci eravamo fatti un’idea sul ruolo del capitalismo-a-stampa nella costruzione delle identità, avevamo compulsato il celeberrimo volume curato da Hobsbawm e Ranger sull’Invenzione della tradizione, che iniziava proprio così: “Le ‘tradizioni’ che ci appaiono, o si pretendono, antiche hanno spesso un’origine piuttosto recente, e talvolta sono inventate di sana pianta”. Eravamo anche riusciti a elaborare il fatto che l’invenzione delle identità e delle tradizioni aveva avuto una funzione “ideologica”, e che dunque esse non necessariamente andavano scartate come fanfole e carnevalate. In fondo anche l’identità nazionale è un’invenzione, ci eravamo convinti a ragione. E avevamo però detto, come ha scritto Alain Touraine, che “è perché ci opponiamo risolutamente agli Stati comunitari che rimaniamo attaccati agli Stati nazionali. Poiché in essi delle popolazioni e culture differenti si mischiano per costituire una civiltà“.

Lo Stato nazionale come comunità di diritto e non di destino, in cui non siamo consanguinei per via di una madre comune, ma fratelli posticci, affratellati da un patto (che si chiama Costituzione). Certo, si dirà: questo progetto è nato male, traballante, violento, tranchant, e oggi più che mai è fragile, stretto tra le spinte esterne, la tensione omologante delle istituzioni sovranazionali e internazionali, e le spinte interne. E non è un caso che la rimessa in discussione di quel progetto avvenga nel momento della gravissima crisi economica di questo decennio, poiché essa spinge verso la rivendicazione del “nostro” suolo, della “nostra” lingua, della “nostra” cultura e – perché no? – dei “nostri” soldi. Così, quello che non era riuscito alla Lega è riuscito alla crisi: rimettere di nuovo in discussione le nostre acquisizioni, minare l’idea della creolizzazione delle culture, rilanciare il progetto di una cristallizzazione e musealizzazione (e ri-politicizzazione) delle identità e delle lingue attraverso fantasiose grammatiche e discutibili alberi genealogici.

Con l’esito che dalla critica dello Stato nazionale promanino, attraverso un paradossale avvitamento, progetti di creazione di piccoli Stati nazionali che procedano attraverso gli stessi schemi di quelli: nazione, lingua, cultura, perfino etnia (o addirittura “razza”). Gli stessi schemi, ma senza l’apparato critico che ne è seguito, senza la rielaborazione che ha permesso di mettere all’opera la fictio e passare dall’identità nazionale alla comunità di diritto attraverso la finzione giuridica della cittadinanza. E se oggi dallo Stato nazionale siamo potuti approdare allo Stato tout court, le piccole patrie propongono il ritorno a piccoli staterelli nazionali, comunità di destino. Ma lo Stato nazionale è una fratria inventata, ed è tramite essa che possiamo costruire il vivere insieme. Questo non vuol dire dismettere ogni rivendicazione di autonomia, ma smontare il dispositivo che le sottende quasi tutte.

Perché ad oggi non si vedono all’opera rivendicazioni autonomiste o indipendentiste che usino il lessico della comunità di diritto, che segnalino l’esigenza di comunità interconnesse a livello europeo con altre comunità, municipalità, esperimenti di autogoverno. Comunità aperte agli altri, all’integrazione. Ciò a cui si assiste è la recrudescenza delle classiche rivendicazioni nazionali in scala ridotta. E certo, i lombardi e i veneti rivendicano i loro soldi (che poi occorrerebbe capire come calcolare il residuo fiscale, cosa da far tremare le vene e i polsi), ma gratta gratta al fondo c’è l’idea di un tufo profondo, un’identità particolaristica, un “noi” 2.0.

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