"Non emergerà alcuna prova fumante" dall'apertura degli archivi sull'omicidio di John Fitzgerald Kennedy annunciata da Donald Trump, ha spiegato Gerald Posner, tra i massimi esperti del caso. Per il team del presidente rendere pubblici questi documenti, tuttavia, avrebbe uno scopo: gettare nuovi dubbi e sospetti sulle agenzie del governo federale che indagano sul Russiagate
A meno di clamorosi colpi di scena, tra poche ore dovrebbero essere resi pubblici i file ancora segreti relativi all’assassinio di John Fitzgerald Kennedy nel 1963. L’annuncio è stato dato con un tweet del presidente Donald Trump, allo scadere del termine ultimo imposto da una legge del 1992, che raccoglieva tutti i documenti sull’omicidio ai National Archives e ordinava la loro pubblicazione entro 25 anni. Circa 50mila atti mai visti (tra cui quelli di Fbi e Cia), in un oceano di più di 5 milioni di documenti, verranno offerti alla considerazione del pubblico statunitense e mondiale.
C’è molta attesa per l’evento, anche se gli storici che hanno studiato quei fatti – al centro di centinaia di ipotesi e teorie complottistiche – non pensano che nelle carte inedite si possa trovare un’altra verità. Gerald Posner (autore di Case Closed: Lee Harvey Oswald and the Assassination of JFK), ha per esempio spiegato a Cnn che “non emergerà alcuna prova fumante. Chiunque pensi che questi nuovi documenti possano ribaltare il caso e provare che ci sono stati tre o quattro sparatori sulla Dealey Plaza, verrà deluso”.
Per Posner, Oswald agì da solo. Quello che però i nuovi files potrebbero mostrare sono le menzogne che le agenzie federali architettarono per nascondere un’altra verità: e cioè la collaborazione tra Cia e mafia per uccidere un capo di stato. Il fatto è che il capo di stato non era Kennedy, bensì Fidel Castro. “Cercarono di farlo fuori sette volte – ha detto Posner – ma non riuscirono nemmeno a ferirlo. Non penso proprio che queste stesse persone – incapaci di liberarsi di Castro – fossero poi capaci di organizzare il crimine perfetto a Dallas”.
Che le carte segrete degli archivi kennedyani possano illuminare i tentativi della Cia di uccidere il leader cubano lo pensa anche Ken Hughes, uno storico dell’Università della Virginia, secondo cui i file potrebbero contenere anche alcune rivelazioni sulla partecipazione americana al colpo di stato contro Ngô Đình Diệm, il presidente e dittatore sud-vietnamita ucciso dai suoi generali dopo le persecuzioni sui buddisti. Anche Ken Hughes, che ha passato vent’anni scavando nei segreti dell’omicidio di JFK, non pensa comunque che i file potranno portare nuovo alimento alle teorie complottistiche. “Piuttosto – spiega – ci sarà molto materiale per gli storici convenzionali”.
Secondo alcuni, delle novità potrebbero però esserci su aspetti specifici della vecchia inchiesta. Per esempio, sulla cosiddetta “Raleigh call”, la misteriosa telefonata che Oswald cercò di fare dal carcere il 23 novembre 1963, la notte prima di essere assassinato da Jack Ruby. A quella telefonata furono presenti due centraliniste, Alveeta Treon e Louise Swinney. Fu la Swinney a ricevere la richiesta di Oswald, che chiese di poter contattare un certo John Hurt a Raleigh, North Carolina. Swinney, come testimoniò poi Treon, non compose neppure il numero. Disse a Oswald che Hurt non rispondeva, poi passò un bigliettino con il numero di Raleigh a due uomini che si erano presentati come agenti della polizia di Dallas. Un’indagine successiva non è riuscita a identificare i due uomini; ed esistono anche alcune discrepanze nelle versioni delle due centraliniste. L’uomo cercato quella sera da Oswald, John Hurt, esisteva però davvero a Raleigh. Era stato un soldato tra il 1942 e il 1946, di stanza nei servizi di controspionaggio militare in Europa e Giappone. Perché l’assassino di Kennedy cercasse proprio lui non è mai stato chiarito.
Altra luce questi nuovi documenti potrebbero fare sul famoso viaggio di sei giorni che Lee Harvey Oswald fece prima dell’omicidio in Messico, dove visitò le ambasciate cubana e russa e dove fu tenuto sotto controllo dalla stessa Cia. Subito dopo l’assassinio di Dallas, il diplomatico Usa Thomas C. Mann disse ai suoi colleghi dell’ambasciata americana di Mexico City di essere certo che Oswald non avesse agito da solo e che i suoi incontri con diplomatici cubani in Messico indicavano la possibilità di un complotto straniero per uccidere il presidente Usa. Poche settimane dopo Mann ricevette un messaggio diretto dall’allora segretario di stato, Dean Rusk, che ordinava la chiusura di qualsiasi indagine in Messico “che potesse confermare o confutare le voci sul coinvolgimento di Cuba nell’omicidio”. La stessa richiesta venne fatta all’ufficio della Cia a Mexico City. Perché si decise di chiudere la pista cubana? E cosa ci faceva, Oswald, in Messico? Cercava di ottenere un visto che gli avrebbe permesso di riparare all’Avana? O voleva prendere accordi per l’eliminazione di Kennedy? Sono anche queste domande rimaste sinora senza risposta, e cui i file rivelati in queste ore potrebbero gettare nuova luce.
Non sfugge, per finire, la tempistica di questa pubblicazione. Donald Trump, nel corso della sua caotica e drammatica ascesa al potere, ha spesso rilanciato teorie complottistiche; non sono mancate quelle relative all’omicidio di Kennedy. Durante la campagna elettorale del 2016, Trump ha per esempio sostenuto che il padre di Ted Cruz, suo rivale per la candidatura repubblicana, era in qualche modo implicato nell’assassionio di JFK – un’accusa non supportata da alcuna prova. Roger Stone, amico intimo di Trump e suo consigliere politico, è anche lui, da sempre, un convinto cospirazionista e ha scritto un libro che intende provare il ruolo dell’allora vicepresidente Lyndon B. Johnson nell’omicidio. Per il team Trump, rendere pubblici questi documenti potrebbe dunque avere un senso politico importante. Significherebbe alimentare nuove teorie complottistiche. Ma significherebbe, soprattutto, gettare nuovi dubbi e sospetti sulle agenzie del governo federale che in questi mesi stanno indagando sui rapporti tra il presidente e i russi.