“La civiltà dell’empatia è alle porte. Stiamo rapidamente estendendo il nostro abbraccio empatico all’intera umanità e a tutte le forme di vita che abitano il pianeta. Ma la nostra corsa verso una connessione empatica universale è anche una corsa contro un rullo compressore entropico in progressiva accelerazione, sotto forma di cambiamento climatico e proliferazione delle armi di distruzione di massa. Riusciremo ad acquisire una coscienza biosferica e un’empatia globale in tempo utile per evitare il collasso planetario?”. Sono le parole di Jeremy Rifkin, noto e autorevole economista ecologista.
Ho pensato a lui perché ricordavo con piacere come avesse usato nelle sue opere la parola e il concetto di empatia, che spesso fa storcere il naso a chi non la annovera tra i termini compatibili con i discorsi seri, concreti, virili della politica e della lotta, forse perché, invece, è un lemma adoperato molto dalle donne e dal femminismo. Nutro da tempo alcune convinzioni: senza la capacità, che si apprende e che si comunica con l’educazione e la cultura (quindi non innata), di entrare in relazione con le persone e quello che ci circonda, senza l’ascolto (non significa essere d’accordo, ma sapere confliggere senza annientare) e infine senza la pratica paradossale del ‘mettersi nei panni altrui’ penso non sia possibile cambiare nel profondo, né a livello individuale né a quello collettivo.
Tutto ciò che ho descritto è l’empatia: si tratta di un’emozione, certo, ma anche di una pratica della quale la nostra vita insieme alle altre persone non può fare senza, a meno di non trasformare l’esistenza in una giungla governata dalla legge del mors tua vita mea.
Empatia, mitezza, ascolto sono merce rara nell’ambiente virtuale che oggi costituisce il principale ambiente di chi è nativo o nativa digitale: i social. Non nego la straordinaria ricchezza che la tecnologia rappresenta nelle nostre vite: la rete e le applicazioni che ogni giorno ci connettono con il mondo, in maniera solo tre decenni fa impensabile, consentono l’accesso a saperi infiniti e a enormi potenzialità di disvelamento e conoscenza. Ma questa mutazione antropologica ha dei costi giganteschi, se si confondono gli strumenti con le finalità.
Quello che è successo pochi giorni fa a Riccione, dove un ventinovenne ha filmato, e messo in diretta dalla sua pagina Facebook, l’agonia di un coetaneo vittima di incidente stradale non è il plot di una puntata dell’interessante serie tv Black mirror, ma realtà. E’ successo davvero, ed è un segno inquietante della deriva emotiva, di quel collasso di cui scrive Rifkin: non però dell’ambiente, ma dell’umanità.
“Io non chiedo a chi è ferito come si senta, io divento la persona ferita” scrisse Walt Whitman ne Il canto di me stesso: una possibile traduzione poetica del concetto di empatia, l’anticipazione ottocentesca di quel stay human spesso invocata di fronte alle manifestazioni della ferinità non animale e naturale ma, appunto, razionalmente umana.
Che sta succedendo all’umanità di una persona quando l’unico gesto che compie di fronte al dolore del corpo di un altro è guardarlo con l’obiettivo di un cellulare, inquadrandolo per registrarne in diretta la sofferenza, restando distante dalla carne ferita? Che cosa racconta l’assenza del bisogno di prossimità, il porre tra sé e la realtà del momento un dispositivo, non il tocco?
Se ci guardiamo intorno non c’è più una sola persona che non abbia con sé un cellulare, spesso in mano, acceso o spento; persino i bambini e le bambine in età tenerissime ne sono dotati. Spesso ai tavoli dei bar e dei ristoranti si osservano gruppi umani, e anche coppie di ogni età, che invece di guardarsi negli occhi li hanno puntati su un telefono, mentre questo continua a emettere suoni più o meno acuti e fastidiosi per indicare l’arrivo di messaggi.
Al di là della maleducazione, dell’invasività e dell’inopportunità rimorosa di questi comportamenti nello spazio pubblico cosa ci indica la scelta di distacco, e non di vicinanza, nel porre un filtro tra sé e l’altro? Al dolore, allo shock, alla paura ogni persona reagisce in modo peculiare e unico, frutto e conseguenza della propria irripetibile storia individuale: il sospetto è però che l’induzione totalmente acritica e incosciente all’uso continuo e senza limiti del guardare senza pensare a ciò che si sta vedendo stia rimodellando non solo lo sguardo umano ma anche i sentimenti e le emozioni.
Quanta anestesia emotiva stiamo accumulando, inconsapevolmente o meno, permettendo che uno strumento diventi la lente principale attraverso cui osservare la realtà, invece di viverla? Mandando in diretta quelle immagini, tolte poi dal web ma comunque viste da un grande numero di persone non è stato soltanto violato ogni limite della privacy dell’altro (il che sarà o meno oggetto in sede legale)?
Ciò che più turba nell’inconsapevolezza del gesto è la negazione della dignità e dell’intimità del corpo altrui nella sua fragilità, nella sua sofferenza, nel suo bisogno. Se non riconosco l’altro essere umano come corpo analogo al mio, se non sento più il bisogno di quella vicinanza che il soccorso prevede ma pongo tra me e quel corpo un mezzo che lo filma io sto trasformando l’altro in un oggetto.
L’oggettivizzazione, la cancellazione dell’intima unicità fisica del corpo mercifica l’umanità, e questo sempre di più accade intorno a noi, nella liquidità ottusa della ragnatela. Ogni forma di violenza, sia essa verbale o fisica, trova luogo principale di esposizione e propaganda attraverso la rete e i social, dal sessismo all’omofobia, dall’hate speech al bullismo e al razzismo. Non c’è che da scegliere nel vasto repertorio, dove l’indifferenza e l’anestesia emotiva la fanno da padrone nel ronzio costante dello sciame digitale.
Perché si avveri la profezia ottimista di Rifking, secondo il quale ‘la civiltà dell’empatia è alle porte’, temo si debba attivare al più presto una mobilitazione culturale straordinaria, che riduca in modo sensibile la preminenza nel quotidiano della tecnologia senza limiti e che rimetta al centro la relazione umana, le emozioni e l’empatia, che non sono traducibili in pixel o in like e che sembrano sempre meno considerate indispensabili.