di Francesca Garisto* e Fabio Savoldelli**

Tanto scrivono e tanto parlano i nostri media istituzionali di “violenza di genere” e di “violenza degli uomini sulle donne”, attraverso voci che condannano rumorosamente il fenomeno e che puntano il dito sugli autori degli efferati delitti in cui nessuno sembra riconoscersi. Ciò senza impiegare una seria riflessione riguardo alla cultura in cui nascono e proliferano, così che il dibattito politico resta ancorato agli effetti e indifferente alle cause.

Quando poi questa violenza avviene nel contesto lavorativo, l’analisi deve considerare anche i rapporti di potere tipici della gerarchia nelle organizzazioni aziendali che troppo spesso portano a travalicare ogni limite consentito e accettabile.

Ci riferiamo a comportamenti che inducono gravissime ripercussioni sulla salute delle lavoratrici e che, oltre ad avere rilevanza dal punto di vista del diritto civile e del lavoro, possono costituire violazioni di norme penali e integrare reati come quello di “maltrattamento”, di “atti persecutori”, di “violenza privata” e altri ancora. Reati la cui componente violenta si trova anche nel malcelato ricatto che ha per oggetto la conservazione del posto di lavoro, in un’epoca in cui le garanzie dei lavoratori al riguardo vanno sempre più riducendosi.

Un caso paradigmatico in tal senso è quello oggetto della sentenza della Corte di Cassazione penale n. 35588/2017, emessa nell’ambito di un procedimento in cui abbiamo assistito la parte offesa, dipendente di un Ente locale e vittima di atti persecutori (stalking) da parte del proprio superiore gerarchico, anche fuori dall’orario e dal luogo di lavoro.

L’imputato esercitava nei confronti della persona offesa compiti di direzione, vigilanza e controllo, dei quali abusava in ogni momento della giornata, al fine di ottenere contatti con la dipendente, fino a farla sprofondare in un grave stato depressivo e di paralizzante prostrazione. Tali poteri direttivi, oltre a consentire all’imputato la possibilità di accesso illimitato al luogo di lavoro della dipendente, attribuivano efficacia autoritativa anche alle condotte persecutorie realizzate fuori dall’orario o dal luogo di lavoro, rendendo “l’assedio” sofferto dalla persona offesa sempre più pervasivo e soffocante.

La Corte di Cassazione, dopo aver confermato la condanna dell’autore dello stalking, ha postulato i requisiti per il riconoscimento della responsabilità civile del datore di lavoro, in quel caso la Pubblica amministrazione, ovvero la connessione tra il fatto dannoso del dipendente (autore dello stalking) e le mansioni da questi espletate nell’ambito del rapporto di lavoro (cosiddetto rapporto di “occasionalità necessaria”).

Tale imprescindibile condizione è stata in passato ritenuta integrata dalla Cassazione, qualora siano state le mansioni svolte dal dipendente ad agevolare o rendere possibile il reato, e ciò anche se il dipendente abbia operato oltre i limiti delle proprie incombenze, o persino trasgredendo gli ordini ricevuti, purché entro l’ambito delle proprie mansioni (Cass. civ. n. 2574/1999).

Ma non solo.

La Cassazione aveva già stabilito che quando il reato è stato commesso dal dipendente nell’esercizio delle proprie funzioni, la responsabilità del datore di lavoro non viene meno neppure nell’ipotesi in cui il soggetto abbia agito per il perseguimento di finalità esclusivamente personali (Cass. civ. 13799/2015). Ciò purché vi sia un collegamento fra il reato del dipendente e le mansioni da questo svolte.

Nel caso della nostra lavoratrice, invece, la Corte di Cassazione penale, con la recentissima pronuncia sopra indicata, è andata oltre e ha affermato la sussistenza del rapporto di “occasionalità necessaria” tra il reato e le mansioni svolte, anche in riferimento alle condotte realizzate dal superiore gerarchico (e stalker) fuori dall’orario di lavoro.

Infatti, la Corte di Cassazione in questo caso ha affermato il principio di diritto secondo il quale sussiste la responsabilità civile della Pubblica amministrazione, in qualità di datore di lavoro, anche per le condotte del dipendente che travalicano i compiti a questo assegnati, quali ad esempio le condotte realizzate in pausa pranzo o fuori dall’orario di lavoro, in quanto “l’esercizio delle funzioni pubbliche ha comunque agevolato la produzione del danno in capo alla persona offesa”.

In buona sostanza, la Corte ha riconosciuto che l’autorità conferita all’imputato dal proprio ruolo di superiore gerarchico ricoperto nell’ambito dell’Amministrazione in questione, ha costituito il presupposto essenziale della condotta persecutoria oggetto di contestazione.

In casi simili pertanto, le lavoratrici e i lavoratori che dopo aver denunciato il proprio persecutore, autore di condotte talmente moleste o violente da integrare un reato, intendano costituirsi parti civili nel processo penale che ne seguirà, potranno citare in giudizio nel processo penale anche il datore di lavoro come responsabile civile, che dovrà rispondere patrimonialmente per il fatto dannoso del dipendente. Limitando così il rischio che al buon esito del processo penale, il diritto al risarcimento della persona offesa rimanga insoddisfatto per l’eventuale incapienza dell’imputato.

Occorre infine considerare che il principio appena illustrato relativo alla responsabilità civile del datore di lavoro, espresso dalla Corte di Cassazione nell’ambito della descritta vicenda di stalking, ha assunto rilevanza penale in considerazione della decisione della persona offesa di presentare denuncia nei confronti del proprio superiore, ma è applicabile a tutti i casi di mobbing e di molestie realizzate nell’ambito del rapporto di lavoro, quand’anche la vittima si limiti a promuovere la sola causa civile per il risarcimento del danno da fatto illecito.

* Avvocata penalista, consulente della Cgil di Milano, vice-presidente del Centro antiviolenza Casa delle donne maltrattate di Milano, da sempre impegnata nella difesa delle donne vittime di violenza, psicologica, fisica ed economica, che si consuma in ambito “domestico” e nella difesa di uomini e donne che subiscono violenza, in tutte le sue espressioni, nei luoghi di lavoro (www.studiolexa.it).

**Collaboratore dell’Avv. Francesca R. Garisto presso lo Studio legale Lexa di Milano sui temi inerenti la tutela della privacy e il diritto penale del lavoro, con particolare riferimento alla normativa sulla prevenzione degli infortuni e malattie professionali.

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