Ancora una condanna della Corte europea dei diritti umani per la caserma Bolzaneto. Gli atti commessi dalle forze dell’ordine nei giorni del G8 del 2001 sono atti di tortura. Come in passato l’Italia è stata condannata per le azioni dei poliziotti e perché lo Stato non ha condotto un’indagine efficace. I giudici hanno riconosciuto ai ricorrenti il diritto a ricevere tra 10mila e 85mila euro a testa per i danni morali. A Bolzaneto, come scrissero i giudici della Cassazione, “fu accantonato lo stato di diritto”: furono rinchiuse oltre 200 persone in tre giorni. Molte delle quali subirono violenze e abusi fisici e psicologici.
Lo scorso 22 giugno 22 giugno 2017 l’Italia era stata nuovamente condannata con una identica motivazione: le forze dell’ordine hanno torturato coloro che furono fermati e portati nella caserma e lo Stato italiano non li ha né protetti né gli ha garantito giustizia. Perché in Italia non esiste una legge sul reato di tortura che sanzioni con pene adeguate questa gravissima violazione, facendo cosi anche da deterrente. La legge mancante è stata approvata il 5 luglio, ma sono in tanti a dubitare della sua reale efficacia in casi come quelli di Bolzaneto. Ad aprile invece l’Italia aveva patteggiato con sei vittime proprio davanti alla Cedu. Nella sentenza era previsto che fossero predisposti corsi di formazione specifici sul rispetto dei diritti umani per gli appartenenti alle forze dell’ordine. Con quell’accordo il governo affermava di aver “riconosciuto i casi di maltrattamenti simili a quelli subiti dagli interessati a Bolzaneto come anche l‘assenza di leggi adeguate. E si impegnava a adottare tutte le misure necessarie a garantire in futuro il rispetto di quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti umani, compreso l’obbligo di condurre un’indagine efficace e l’esistenza di sanzioni penali per punire i maltrattamenti e gli atti di tortura”.
La prima condanna per l’Italia era arrivata il 7 aprile 2015 sul blitz della polizia alla scuola Diaz la notte del 21 luglio 2001. Anche in questo caso i giudici europei stabilirono che quello che avvenne “deve essere qualificato come tortura”. La Corte aveva dichiarato all’unanimità che è stato violato l’articolo 3 della Convenzione: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti“. Il ricorso era stato presentato da Arnaldo Cestaro, 62enne all’epoca del pestaggio, militante vicentino di Rifondazione comunista che dalla Diaz uscì con fratture a braccia, gambe e costole che hanno richiesto numerosi interventi chirurgici negli anni successivi.