Società

L’aspettativa di vita si allunga, anche il lavoro deve cambiare

Circa un mese orsono sono andato a una cena fra vecchi amici d’infanzia. Su quindici commensali, tutti tra i sessanta e sessantadue anni, solo in tre continuiamo a lavorare. Gli altri, complice il fatto che hanno iniziato il lavoro molto presto tra i 15 e i 18 anni, sono in pensione. In realtà quasi tutti continuano a svolgere delle attività chi come meccanico d’auto, chi come fabbro etc. La differenza sostanziale è che si sentono più liberi di portare avanti lavori saltuari e di impegnarsi in modo meno intenso.

Recentemente ho visitato un paziente di 99 anni arrabbiato con la commissione patenti perché non gli aveva rinnovato il permesso di guida. Sempre in questo periodo una signora di ottanta anni col marito di ottantacinque mi ha chiesto la cortesia di parlare col consorte per provare a indurlo a ridurre l’attività sessuale. Questo signore, alla sua venerabile età, pretende un rapporto quasi ogni giorno mettendo la moglie in una discreta difficoltà.

Le recenti rilevazioni Istat sulle aspettative di vita lungi dal rallegrarci, vista la possibilità che emerge di avere una vita più lunga, paiono metterci nello sconforto perché, conseguentemente, dovremo lavorare più a lungo.

Diversi problemi si intrecciano. Per ogni pensionato retribuito dalle casse previdenziali ci vogliono uno o due giovani che paghino le contribuzioni. Affermare che “paga lo Stato” è un modo per nascondere la realtà perché lo Stato è costituito da tutti coloro che lavorano e devono effettuare versamenti cospicui. Se gli anziani over sessanta continuano a lavorare, soprattutto in certe professioni, si crea una sorta di tappo al ricambio delle generazioni. In diverse tipologie di lavoro è complicato continuare dai sessanta ai sessantasette come ad esempio per un chirurgo, un lattoniere o un addetto ai turni notturni.

Invece di immergersi nel solito stanco rituale in cui si contrappongono le ideologie occorre cominciare ad adattarsi alla mutata realtà demografica e sociale.

Ritengo che sarebbero utili due strumenti che incidano sul lavoro dipendente rendendolo più simile al lavoro autonomo che solitamente è più adattabile alle esigenze del lavoratore. Da una parte il part-time esteso, su richiesta, a tutti coloro che superano i sessant’anni con la possibilità di utilizzare un mix fra pensione e stipendio. Dall’altra, sempre a quell’età, la possibilità di essere collocati in ruoli adatti al mutare delle capacità. Nel caso in cui la ditta non disponga di mansioni adeguate costruire una corsia privilegiata per la collocazioni in altre ditte che abbiano lavori idonei.

La flessibilità dovrebbe essere l’elemento centrale di provvedimenti che invece di porre barriere rigide consentano alle persone di costruire un’idea di se stessi ancora produttivi senza la sensazione di essere costretti a lavori che non si riescono a portare avanti.

Deve, infine, mutare la percezione psicologica di quella che un tempo veniva definita come vecchiaia e poi, con terminologia edulcorata, terza età. Non si tratta più di una fase relativamente omogenea in cui tutte le persone hanno esigenze analoghe ma piuttosto di un periodo della vita in cui occorre valorizzare le capacità, spesso rilevanti, che sono presenti nelle persone e in cui l’adattamento e la resilienza (capacità di resistere con flessibilità) sono fondamentali.