«Scrivi il coccodrilo di Charles Bronson»
«Ma è vivo»
«Fornario, è per quello è che un coccodrillo. Si scrive prima così quando muore è pronto per andare in stampa»
«Lo so, è che non sono capace di scrivere di un vivo come se fosse morto».
Era molti anni fa. Ricordo ancora l’attacco: «Si è spenta la luce dietro gli occhi a fessura di Charles Bronson». La sola cosa che ero riuscita a scrivere prima che Charles Bronson morisse davvero.
Bisognerà trovare una definizione in gergo giornalistico anche per il pezzo che state leggendo: il rovescio del coccodrillo. Per il pezzo che si scrive dei morti quando sono ancora vivi. Scrivo di Severino Cesari perché non ci lascia. Severino è, con Paolo Repetti, il fondatore di Einaudi Stile Libero, che quando da bambina facevo nuoto agonistico mi domandavo perché si chiamasse così, se poi il polso doveva essere leggermente più in alto delle dita e il gomito leggermente più alto del polso. Quella definizione ha preso senso quando ho cominciato a leggere i libri con la costa gialla, molto prima di scriverne uno.
Scrivo di Severino per condividere con voi la cura miracolosa che lo tiene in vita e chi ci lascia.
Severino ha vissuto in fin di vita per molti anni, con la grazia e la pienezza di chi sa di poter morire il giorno dopo e quello prima e allora vive questo giorno qui, ogni giorno che gli è dato, senza la zavorra che appesantisce noi che ci proiettiamo nel futuro. Senza l’ambizione, senza il pregiudizio, senza il cinismo, senza la protervia, senza il rancore. Vivere lieve del suo solo stupore, della sua gratitudine, della sua curiosità. Severino ha raccontato ogni giorno su Facebook il suo vivere di cancro, attirando migliaia di follower riconoscenti e commossi che oggi scrivono «Non ti conoscevo personalmente ma…». Ma sì.
A migliaia, ogni giorno, spegnevamo le homepage dei quotidiani, accorrevamo sulla pagina del profilo di Severino e leggevamo la sua cronaca delle cose essenziali – la pazienza, la compassione, la meraviglia, la tenerezza – per ricordarci che tutto il resto che ci fa smaniare e polemizzare non vale la pena quasi mai. Severino assomigliava al protagonista di una fantasia che ho fin da bambina. Quella di un nuovo prototipo di essere umano, capace di vivere il tempo che gli è concesso in ordine sparso e non cronologico. Svegliarsi ogni giorno in un diverso momento della propria vita: scolaro, marito, adolescente, padre, ammalato oggi, sano domani. Svegliarsi senza ricordare le preoccupazioni del giorno prima e i programmi per il giorno dopo. Essere il solo a vivere così, tra gli altri condannati a reggersi al tempo che fugge e a quello che manca al momento tanto atteso: il sabato, la laurea, la promozione, l’estate, la fine delle rate.
Domani sarà inverno o primavera, al prototipo non è dato saperlo, lui vive ogni giorno ora e qui, solo qui. Non ha necessità di puntellare le sue convinzioni, di esprimere giudizi per farsi largo tra gli altri e trovarsi il giorno dopo un po’ più avanti, un po’ meno indietro nella corsa di tutti contro tutti. Che compassione che ha per gli altri, trascinati dalla vita avanti e indietro, senza sosta. «Bisogna che io sia molto gentile con loro», pensa il prototipo. I giorni in cui avverto il peso del futuro e del passato, provo a far finta di svegliarmi così. Funziona, e adesso ha un nome. La cura-Severino.