Puntuale come un orologio svizzero. L’Harmattan, il vento del deserto, ha cominciato a soffiare sulla polvere del Sahel. Caldo di giorno e fresco o freddo la notte. Un vento irregolare, locale, che setaccia il deserto e porta con sé quanto rimane della sabbia. Una polvere fine che si accomoda ovunque senza essere stata invitata. Per qualche mese dell’anno il sole si nasconde a tratti e persino i volti si trasfigurano.

Il controllo delle migrazioni è un pretesto per occupare militarmente il Sahel come fa la polvere dell’Harmattan. Ci stanno proprio tutti. Francesi, americani, tedeschi, olandesi , danesi, norvegesi, svedesi e italiani. In più ci sono i militari di vari paesi africani che compongono la forza di pace delle Nazioni Unite. La chiamano minusma, che corrisponde alla Missione multidimensionale integrata delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione del Mali. Essa ha sostituito l’operazione Serval e affianca l’altra di nome Barkhane.

Questo accade senza parlare delle frontiere, altra ghiotta occasione di militarizzazione coordinata dello spazio saheliano. I francesi, basati a Niamey e a Madama, verso il confine libico. Gli americani col progetto già iniziato di costruzione dell’aeroporto per i droni di Agadez per controllare il Niger, il Mali, la Nigeria e la Libia. Le eliminazioni chirurgiche dei sospetti sono occasionali e coerenti. In cantiere c’è la base militare tedesca e un possibile e ridotto contingente italiano che completa la presenza militare occidentale.

C’è poi in via di sperimentazione la forza congiunta del chiamato G5. Con folle richieste di denaro per funzionare e che, composto dai militari di cinque paesi del Sahel, ha lo scopo di combattere i gruppi terroristi in buona parte creati a suo tempo in Libia e dintorni. Militari, armi, soldi e soprattutto interessi da proteggere. Questa la miscela messa insieme dalla geopolitiche militari che, come l’Harmttan, soffiano venti di guerra e di armi da trafficare, vendere e perfezionare sul terreno ormai conquistato.

Petrolio, gas, uranio, ferro, oro, diamanti e migranti. Questi ultimi sono presi como ostaggio delle politiche economiche dell’Occidente che, tra le altre cose, cerca di circoscrivere l’avanzata cinese in questa parte dell’Africa. Guerre per procura, come quella di Boko Haram, oppure preparate e condotte come in Libia e altre date in subappalto ai gruppi terroristi. Questi ultimi sono funzionali alla militarizzazione del deserto. Non ci fossero bisognerebbe inventarli per giustificare una guerra senza fine di tutti contro tutti.

Anche in Libia il discorso fila. Tra interessi petroliferi, il gas e affini, il controllo dei migranti appare come una risorsa umanitaria che incoraggia le Ong, i rapporti sui diritti umani e i reportage dei giornalisti d’avanguardia. Il conto torna per tutti o quasi. I migranti sono il finto nemico, l’Organizzazione internazionale delle migrazioni il braccio umanitario delle politiche occidentali e i militari la polvere che tutto copre. L’Harmattan dura appena qualche mese mentre l’occupazione militare è destinata a durare nel tempo. Entrambe buttano polvere negli occhi e seppelliscono i misfatti. Poi, con un’impennata di dignità, il vento del deserto spazza le menzogne che tutto coprivano. Per solidarietà, l’Harmattan porta fino al mare le voci dei migranti che tutti credevano perdute.

Harmattan di Niamey, ottobre 017

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