La condanna a morte emessa il 23 ottobre da un tribunale iraniano nei confronti di Ahmadreza Djalali ha lasciato sgomenta la comunità accademica internazionale, compresi i colleghi dell’Università del Piemonte orientale. Qui, oltre che in Belgio e in Svezia, Djalali aveva svolto le sue ricerche nel campo della Medicina dei disastri.

Arrestato in occasione dell’ultima sua visita in Iran, nell’aprile 2016, per sette mesi – tre dei quali passati in isolamento – Djalali non aveva potuto incontrare un avvocato. Djajali è stato condannato a morte per “aver sparso corruzione sulla terra, un reato di derivazione coranica che fa riferimento ai comportamenti disonesti e che ai tempi d’oggi comprende le attività di spionaggio.

Secondo la sentenza, che uno dei suoi avvocati ha potuto leggere, Djalali lavorava per il governo israeliano che lo aveva pagato in cambio di informazioni sui programmi militari e nucleari iraniani e poi lo aveva aiutato a ottenere il permesso di soggiorno in Svezia. In una conferenza stampa tenuta il giorno dopo la condanna a morte, il procuratore di Teheran si è spinto ad associare Djalali alle uccisioni, risalenti al 2010, dei due docenti ed esperti di nucleare Massoud Ali-Mohammadi e Majid Shahriari.

La verità potrebbe essere quella opposta: che, proprio per le sue relazioni internazionali, le autorità iraniane abbiano chiesto a Djalali di spiare le attività dei governi dei paesi europei in cui svolgeva le sue attività di ricerca. Al rifiuto, la vendetta giudiziaria.

Due giorni prima della sentenza, in un audio pubblicato su Youtube, Djalali aveva denunciato che, durante l’isolamento, era stato costretto per due volte a rilasciare “confessioni” di fronte a una telecamera, leggendo una dichiarazione scritta dai funzionari che lo interrogavano. Aggiungeva di essere stato sottoposto a torture psicologiche e minacce di metterlo a morte e di arrestare i suoi figli, per obbligarlo a “confessare” di fare spionaggio per conto di un “governo nemico”, un’accusa del tutto fabbricata dai servizi segreti iraniani.

Appena appresa la notizia della condanna a morte, Amnesty International ha rilanciato la campagna per salvare la vita di Ahmadreza Djajali. Oltre tremila firme sono state già consegnate, venerdì mattina, all’ambasciatore della Repubblica islamica dell’Iran in Italia, Jahanbakhsh Mozaffari, dal direttore generale di Amnesty International Italia Gianni Rufini. All’incontro hanno preso parte anche la senatrice Elena Ferrara e il senatore Luigi Manconi, che hanno presentato all’ambasciatore il testo dell’interpellanza, indirizzata al ministro degli Affari esteri Angelino Alfano, sottoscritta da oltre 130 senatrici e senatori appartenenti a tutti gli schieramenti politici, che chiede che venga scongiurata la condanna a morte di Djalali.

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