“Devo tutto a La strada di Federico Fellini: senza quel film oggi non sarei qui a parlarvi”. Jake Gyllenhaal sorride sempre, ma si commuove quando parla al pubblico della Festa del Cinema di Roma del film del grande cineasta italiano, di cui confessa “è il regista con cui avrei sognato di lavorare”. “La strada è l’opera attraverso il quale mio padre (il regista Stephen Gyllenhaal, ndr) si è innamorato del cinema e ha iniziato la sua carriera che poi ha segnato per sempre la mia”.
A vederlo sul palco degli “incontri ravvicinati” col direttore Antonio Monda, non solo è disinvolto ma esibisce una dolcezza e una gentilezza da anti divo che raramente si incontrano nei divi hollywoodiani, e in quanto a concentrato di star il 37enne Gyllenhall non ha nulla da invidiare ai colleghi. Alla kermesse romana è approdato accompagnando la sua ultima fatica, Stronger di David Gordon Green (nelle sale italiane nel 2018), di cui è l’intenso protagonista assoluto. La platea (molte le fan..) lo osanna e acclama ad ogni sua dichiarazione, mentre sul grande schermo sfilano i film che hanno segnato – almeno finora – il suo percorso da attore. Dal cult Donnie Darko (2001) di Richard Kelly (“guardate che guanciotte mi portavo addosso a quell’età!”) in cui recitava con la sorella Maggie, a Jarhead (2005) di Sam Mendes, da Zodiac (2007) di David Fincher a Lo sciacallo (2014) – che rappresenta ad oggi la sua interpretazione più estrema – fino al recente Animali notturni (2016) di Tom Ford. Ma è con le sequenze di Brokeback Mountain (2005), per il quale Jake ha ricevuto la sua prima nomination agli Oscar, che l’emozione sale alle stelle, anche in ricordo del prematuramente scomparso Heath Ledger.
“Ho letto la sceneggiatura di Ang Lee e ho pianto come non mai. Volevo a tutti costi questo ruolo ma Lee doveva trovare la combinazione giusta, e quando ha visto me e Heath insieme non ha avuto più dubbi. Sapevo benissimo che quel personaggio avrebbe comportato un rischio, eravamo ancora nel 2005 e l’amore omosessuale così esibito non era quotidiano al cinema, ma io sentivo quella storia come una qualunque storia d’amore, onestamente non mi sono mai preoccupato dei pregiudizi e dei rischi di censura. Paradossalmente oggi non capisco più dove stia andando il mio Paese, credo sia in corso un profondo degrado culturale, ma questo non fa che fortificarmi come uomo e come individuo portatore di valori, in primis rispetto al diritto delle persone di amarsi liberamente”. Versatile e curioso (“mi affascinano l’esperienza umana e i processi imponderabili dell’inconscio”), Gyllenhaal non ha un genere cinematografico prediletto e nessuna regola che rimandi al famigerato “metodo”: “Io faccio qualunque cosa, non credo nelle regole ma nel rispetto del testo, così come nel rispetto del partner e del regista coinvolti; mi faccio trasportare dall’energia richiesta sul set, ho fatto film di ogni tipo, alcuni senza parole altri con dialoghi fitti, alcuni che richiedevano improvvisazioni ed altri dove era necessario attenersi alle virgole. Per me l’unica struttura che riconosco é la preparazione: oltre ad essa riconosco solo la libertà”. E nei desiderata del giovane Gyllenhaal c’è un nome: Pedro Almodovar. Che qualcuno mandi un messaggio a Madrid.